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storie africane

Briciole di Africa

 

il congo

Lucio Gentilini

http://luciogentilini.xoom.it/virgiliowizard/testi

 

IL CONGO DAL COLONIALISMO ALLA

GUERRA MONDIALE D’AFRICA

 

Introduzione

 

Negli anni a cavallo del nuovo millennio in Congo si è consumata la più grave catastrofe umanitaria dopo quella della seconda guerra mondiale e, purtroppo, tale tragedia non si è ancora conclusa.

Strascichi del genocidio in Rwanda, antichi e nuovi odi etnici, guerre fra stati, interessi per le notevoli ricchezze minerarie da parte di etnie locali e di compagnie e di stati occidentali, lotte interne per il potere, tutto si è incrociato e fuso in una micidiale serie di scontri violentissimi e distruttivi costellati di atrocità di ogni genere perpetrate quasi sempre sulla inerme ed innocente popolazione civile.

Qui non si tratta di lontane vicende di una terra remota e selvaggia, ma di una storia che ci riguarda tutti molto da vicino: quando accendiamo un computer o un telefono cellulare, che apriamo una lattina, facilmente ci serviamo infatti di minerali che provengono da queste disgraziatissime regioni; chissà quanti diamanti che ornano colli e dita delle nostre signore sono stati estratti lì, come tanto oro, legname pregiato, gomma, e quant’altro partecipa dei nostri consumi abituali.

Il Congo ci è dunque essenziale e vicinissimo, ma mentre ignoriamo completamente quant’esso è importante per noi, anche la sua terribile storia – anche la più recente – ci è ignota.

Queste pagine vengono allora stese per cercare di rimediare a questa lacuna della nostra cultura e perché sofferenze così estese e diffuse non rimangano ancora celate nel silenzio e nell’oblio.

 

Il Congo

 

Il Congo è innanzitutto un fiume, uno dei grandissimi fiumi africani che si presenta ‘come un immenso serpente con la testa nel mare, il corpo disteso che curva lontano su un vasto territorio e la coda persa nel profondo del continente’ - così lo descrive Conrad nel suo famoso ‘Heart of Darkness’.

Chiamato dagli indigeni ‘Nzere’ (il fiume che inghiotte tutti gli altri), il Congo col suo corso di 4700 km. ed il suo estuario ampio 160 km. è il secondo fiume africano dopo il Nilo, mentre con una larghezza che arriva a 16 km. è il secondo al mondo dopo il Rio delle Amazzoni per portata d’acqua: esso nasce sul massiccio montuoso fra la Repubblica Democratica del Congo e lo Zambia e dà il nome ai due stati che separa, la Repubblica del Congo (ad ovest con capitale Brazzaville) e la Repubblica Democratica del Congo (ad est con capitale Kinshasa).

 

La Repubblica del Congo si estende per 342mila kmq. ed ha una popolazione di 3 milioni di abitanti, la Repubblica Democratica del Congo si estende per 2.345mila kmq. (più o meno quanto l’Europa) ed ha una popolazione di oltre 72 milioni di abitanti - ma questi sono i nomi e la situazione di oggi (estate 2012), al termine di una travagliata e durissima storia.

 

La corsa all’Africa

 

Non è un caso che Conrad ambienti il suo sopracitato “Heart of Darkness” (scritto nel 1899) in Congo: già nelle prime pagine del romanzo il protagonista Charlie Marlow ricorda che quand’era ragazzo quell’area era stata uno dei ‘molti spazi bianchi’ (cioè del tutto sconosciuti) sulla carta geografica dell’Africa e che ora (dopo la conquista belga cioè) era diventata invece ‘un luogo di tenebra’ – e queste semplici definizioni riassumono eloquentemente la terribile vicenda coloniale di questa disgraziata parte del mondo.

Se infatti il colonialismo europeo in Africa è stata un’infamia, in Congo esso riuscì addirittura a superare se stesso.

 

Fino agli ultimi decenni dell’Ottocento gli europei si erano potuti stabilire solo sulle coste dell’Africa sub-sahariana perché non avevano (ancora) i mezzi per poter penetrare al suo interno: l’Africa era la ‘tomba dell’uomo bianco’ che non era in grado di difendersi dalle sue endemiche malattie, segnatamente la malaria; con i velieri di allora gli europei non erano in grado di risalire i grandi fiumi africani; e le loro armi da fuoco erano insufficienti per le stragi di uomini e di animali necessarie alla conquista.

La seconda rivoluzione industriale col poderoso aumento della tecnologia a disposizione degli invasori europei ovviò a queste difficoltà fino ad allora insormontabili: chinino, battelli a vapore, nuovi fucili e mitragliatrici permisero così quella corsa all’Africa (‘the Scramble for Africa’) che nel giro di qualche decennio l’avrebbe trasformata in un agglomerato di colonie europee.

 

Leopoldo II, Stanley e Pietro Savorgnan di Brazzà

 

Nell’ambito della corsa all’Africa per quanto riguarda il Congo due furono gli stati che nella seconda metà del XIX secolo ne iniziarono la penetrazione e se ne assicurarono la conquista: la Francia e, soprattutto, il Belgio o, meglio, il suo re Leopoldo II (nato nel 1835 e sul trono dal 1865 al 1909).

Nonostante le ridotte dimensioni del suo stato, Leopoldo II credeva fermamente che le colonie d'oltremare fossero la chiave per la grandezza di un Paese (europeo, s’intende) e di conseguenza lavorò instancabilmente per acquisire un territorio coloniale per il suo Belgio.

Dopo che le sue mire si erano appuntate sul Congo, il primo problema che Leopoldo II dovette affrontare fu evidentemente quello di avere conoscenza dei luoghi: nel 1876 organizzò così a Bruxelles una conferenza geografica sull’argomento; nel 1878 finanziò, sempre a Bruxelles, il Comitato di studi dell’alto corso del fiume Congo (Comité d’études du Haut-Congo); dopo il rifiuto di Brazzà, nel 1879 il Comitato incaricò allora il famoso esploratore inglese (già ritrovatore di Livingstone) Stanley di compiere una spedizione nella regione; già nello stesso anno Stanley riuscì a risalire il corso del Congo e nel 1880 a stipulare i primi trattati commerciali e di sfruttamento dell’ampia fascia ad oriente di esso.

Ancora più importante, nel 1881 Stanley finì di far costruire (da africani provenienti in genere da altre regioni) una strada che collegava le due parti del fiume Congo – prima e dopo le cataratte che ne interrompevano la navigazione – permettendo così a uomini e merci di muoversi scorrevolmente dall’interno al mare (e viceversa).

Ormai il successo sembrava arridere al deciso sovrano belga ed alle sue aspirazioni coloniali, ma nell’Europa del tempo simili iniziative individuali suscitavano preoccupazione, rivalità e, naturalmente, contromisure - e furono proprio queste che la Francia, l’altra potenza interessata alla zona, mise subito in atto servendosi dell’opera di un altro grande esploratore, l’italiano Pietro Savorgnan di Brazzà.

Pietro Savorgnan di Brazzà (1852-1905), pur essendo oggi praticamente sconosciuto in patria, è stato invece un’affascinante figura di spicco in quel mondo così avventuroso ed affamato di scoperta e di avventura: nato a Castel Gandolfo da un conte e da una marchesa, a quattordici anni si era però trasferito in Francia perché intenzionato ad esplorare quelle macchie bianche (anche lui!) sulla carta geografica dell’Africa - e da quel momento era stato naturalizzato francese.

Dopo che aveva partecipato ad una prima esplorazione del fiume Congo nel 1875, nel 1880 venne incaricato dal governo francese (in competizione, come si è detto, col Belgio di Leopoldo II) di una nuova missione in quei territori e già nel settembre dello stesso anno stipulò il cosiddetto ‘trattato Brazzà-Makoko’ con il re Iloo dei Teke (il cui titolo era appunto “Makoko”): con questo accordo la Francia ottenne un vasto protettorato sul territorio del monarca indigeno sulle rive occidentali del fiume Congo e stabilì una base in posizione strategica all’inizio del suo corso superiore navigabile.

 

La conquista del Congo

 

Mentre Leopoldo II accelerava intanto la penetrazione nell’area orientale del Congo, in Francia il ‘trattato (di amicizia) Brazzà-Makoko’ (ratificato nel novembre 1882) fu salutato con entusiasmo e la stampa francese parlò di ‘una terra vergine, grassa, vigorosa e feconda’.

Nel 1883 l’inviato Cordier ottenne dal re Makoko il riconoscimento della sovranità francese sul suo territorio ed il 2 febbraio 1883 Brazzà venne nominato primo commissario del nuovo possedimento, ma - ancora una volta - simili successi, conseguiti con iniziative individuali in Africa, provocarono risentimenti e tensioni in Europa.

I portoghesi, da quattro secoli in Angola e Mozambico, avevano scoperto la foce del Congo fin dal 1482 e, nonostante la loro estrema debolezza, pretendevano di detenere i più solidi diritti su tutti quei territori;

l’Inghilterra - da un secolo e mezzo in aperta competizione coloniale con la Francia - di fronte ai vantaggi che quest’ultima andava ottenendo in Congo decise di appoggiare le rivendicazioni dei (suoi secolari alleati) portoghesi ed il 26 febbraio 1883 a Londra fu sottoscritto un trattato anglo-portoghese con il quale riconosceva la sovranità del Portogallo sull’intera foce del Congo: in questo modo sia Leopoldo II che la Francia si sarebbero trovati ad avere imperi coloniali - comunque ancora in formazione - senza sbocco sul mare (!);

piuttosto inaspettatamente anche la Germania, nuova grande potenza (ma tradizionalmente continentale), entrò in gioco: Bismarck infatti nel 1884 riconobbe come colonie del Reich tutti quei territori non ancora rivendicati da altre potenze (europee) in cui erano presenti insediamenti commerciali tedeschi.

Nacque così, seppur frammentato ed ancora piuttosto trascurato, l’Impero coloniale tedesco africano.

Il disegno di Bismarck era comunque molto più ambizioso: deciso a mantenere pace ed equilibrio in Europa e preoccupato delle tensioni internazionali suscitate dalla corsa all’Africa, egli si fece allora promotore di una conferenza internazionale che regolasse tutta la questione: fu questa la famosa Conferenza di Berlino (dal 15 novembre 1884 al 26 febbraio 1885) che, presieduta dallo stesso Bismarck, per quanto riguardò il Congo prese le seguenti decisioni:

innanzitutto, Stanley, ufficialmente presente come inviato degli Stati Uniti ma in realtà agente di Leopoldo II, propose di costituire nell’Africa equatoriale un’area di libero commercio il più estesa possibile, dall’oceano Atlantico fino all’oceano Indiano: non solo la proposta venne approvata, ma, analogamente a quella sul Congo, si stabilì la libera navigazione anche sul fiume Niger. Per area di libero commercio e di libera navigazione si intendeva che tutte le navi (europee e statunitensi) avrebbero potuto svolgere tranquillamente i loro traffici senza dogane ed impedimenti di alcun genere e sarebbero state assistite in caso di necessità, così che gli interessi commerciali delle Grandi Potenze sarebbero stati pienamente garantiti indipendentemente da quale di loro avesse il controllo ed il dominio dell’area interessata;

in secondo luogo, l’area ad ovest dei fiumi Congo e Ubangi (cioè l’attuale Repubblica del Congo) divenne un protettorato francese - e nel 1891 sarebbe poi stato dichiarato colonia con il nome di ‘Congo Francese’;

in terzo luogo, il massimo beneficiario della Conferenza di Berlino fu Leopoldo II: l’area ad est del Congo (cioè l’attuale Repubblica Democratica del Congo, ben 76 volte più grande del suo Belgio) gli fu infatti assegnata come proprietà personale (!) e Leopoldo II ebbe addirittura la spudoratezza di chiamarla ‘Stato Libero del Congo’ e si autoproclamò ‘Sovrano del Congo’.

 

La Conferenza di Berlino fu il momento culminante e conclusivo della spettacolare e spietata ‘Corsa all’Africa’, quando le Potenze Europee se la divisero in zone di rispettivo controllo e dominio.

Le motivazioni ufficiali di questa spartizione dell’Africa furono quelle classiche del colonialismo e cioè aiutare le popolazioni indigene, portare cultura e civiltà, assicurare progresso e sviluppo grazie alla diffusione di industria e commercio, cristianizzare quelle genti barbare e pagane, lottare ed abolire la schiavitù, ecc. ecc..

La somma ipocrisia di tanto roboanti propositi non consistette solo nella sempre più sbandierata convinzione della indiscutibile superiorità culturale, razziale ed etnica degli europei (che di per sé era già un insulto bello e buono), ma anche e soprattutto negli sfrenati sfruttamento, rapina, stragi e genocidi che ne seguirono.

Essa fu manifesta fin dalla concezione stessa dell’intera operazione: le Potenze Europee divisero infatti il continente tracciando i confini su cui si accordavano con righe e righelli sulla carta geografica dell’Africa, senza conoscere spesso nemmeno di che tipo di territorio si trattava, come se l’Africa fosse una loro proprietà inanimata.

A Berlino non si aveva spesso la minima idea delle genti africane di cui si decise a cuor leggero (e con l’occhio fisso al portafoglio) il terribile destino e quello del Congo fu proprio il caso più emblematico: non a caso la Conferenza di Berlino fu detta anche ‘Conferenza dell’Africa Equatoriale’ o ‘Conferenza sul Congo’.

Le popolazioni locali del Congo (almeno 250 gruppi etnici!), gli abitanti da millenni di quelle terre sterminate, furono considerate come una massa informe, anonima, primitiva, ferma agli albori dell’evoluzione (ci furono persino medici e scienziati che pensavano che l’ottentotto derivasse dall’incrocio fertile fra uomo e scimmia), senza storia, senza cultura e civiltà, senza ovviamente alcun diritto e volontà: i popoli africani vennero così divisi o uniti nel modo più insensato ed arbitrario o, meglio, secondo gli equilibri interni stabiliti fra le Potenze Europee.

Il Congo da ‘spazio bianco’ sulla carta geografica sarebbe presto divenuto ‘luogo di tenebra’.

 

 

 

 

 

Il Congo Francese

 

Secondo la parole di Cornut-Gentile (alto funzionario coloniale in Africa) il Congo era “un forziere di cui nessuno ancora ha trovato la chiave”: la nuova colonia francese rientrava insomma nel novero di quelle di sfruttamento ed i nuovi padroni si posero alacremente all’opera per organizzare il nuovo possedimento secondo i loro bisogni ed i loro obiettivi: ancor oggi il 65% del territorio è composto di foreste pluviali ricche di legnami pregiati, importantissima risorsa (fondamentale anche l’estrazione del caucciù) insieme ad altri prodotti della terra come arachidi, canna da zucchero, banane, ananas e manioca.

Nonostante la propaganda della ‘missione civilizzatrice’ - ed evangelizzatrice - dell’uomo bianco (quella che Kipling avrà la sfacciataggine di chiamare ‘fardello dell’uomo bianco’), i sistemi di sfruttamento adottati furono semplicemente bestiali e resero il colonialismo in Congo uno dei più violenti ed oppressivi.

Naturalmente in patria si taceva sulla incredibile violenza a danno degli indigeni: dell’Africa si parlava (oltre all’esaltazione della ‘missione civilizzatrice’) semmai a proposito del suo esotismo, della sua bellezza, dei suoi progressi, e di quant’altro l’ipocrisia colonialista riusciva ad inventare - ma non tutti erano disposti a tacere, come dimostra l’emblematico caso di Pietro Savorgnan di Brazzà.

Nominato nel 1887 governatore del Congo Francese, Brazzà si dedicò strenuamente alla lotta allo schiavismo anche comprando numerosi schiavi che poi liberava: quando il denaro francese non bastava ci metteva il suo, ricavato dalla vendita del patrimonio di famiglia (e per questo scopo spese 700mila lire oro!).

Naturalmente non tacque sulle brutalità coloniali cui assisteva e, divenuto troppo scomodo per il suo stesso governo e per le compagnie francesi impegnate nel Congo Francese, nel 1898 venne destituito improvvisamente e su due piedi.

Tre anni dopo contro la propaganda ufficiale del governo francese Brazzà tornò a denunciare gli errori e gli orrori di tale colonialismo, ma il suo dossier venne insabbiato.

Nel 1903 la cortina di silenzio sulle reali condizioni dello sfruttamento e dell’oppressione ai danni dei congolesi cominciò tuttavia ad incrinarsi ed arrivarono sempre più numerose in Francia le accuse di abusi, di stragi e di orrori che fecero scalpore e conquistarono i titoli dei giornali - come il caso, pienamente approvato delle autorità locali, dell’indigeno fatto saltare per aria con una carica di esplosivo infilata nell’ano, le mutilazioni di piedi e di mani col machete, le tremende fustigazioni cogli scudisci di pelle di ippopotamo, gli affogamenti, gli ostaggi lasciati morire in baracche sigillate, i villaggi distrutti, le stragi con le mitragliatrici (le celebri Maxime’) e quant’altro.

Sempre più privo della copertura fornita dalle falsità della propaganda, il governo francese si trovò in seria difficoltà e per calmare l'opinione pubblica richiamò in servizio l’eroico ed incorruttibile Brazzà per affidargli un'inchiesta sul campo.

L'esploratore accettò l'incarico anche se sapeva bene che in realtà il governo e gli stessi funzionari che l’accompagnavano erano contro di lui: accolto da folle enormi di indigeni in festa, in pochi mesi compilò una relazione scottante e veritiera in cui narrava dello sfruttamento, dei lavori forzati, delle torture, delle deportazioni, dei campi di concentramento, dei bambini e delle donne tenuti in ostaggio a garanzia dei tributi in avorio e caucciù, e degli altri mille orrori perpetrati ai danni delle sfortunate popolazioni indigene - ma non fece nomi, preferendo prendersela col sistema coloniale in quanto tale.

Portato a termine anche questo compito e già malato, s’imbarcò per la Francia, ma durante una sosta a Dakar morì, a soli 53 anni, il 14 settembre 1905.

Alla ricerca di facili benemerenze presso l’opinione pubblica il governo francese proclamò di voler collocare le spoglie del grande esploratore nel Pantheon, ma la moglie (che sostenne sempre che il marito era stato avvelenato) rifiutò l’onore ipocrita e Brazzà venne sepolto ad Algeri: sulla sua lapide fu inciso l’epitaffio ‘La sua memoria è pura di sangue umano’.

Come dimostrazione finale della sua malafede, nel febbraio del 1906, l'Assemblea Nazionale Francese votò la soppressione della relazione di Brazzà (che comunque era già stata sottratta al suo autore).

 

Il caso di Brazzà merita di essere attentamente considerato perchè proprio la posizione stessa dell’esploratore rivelava un’irrisolvibile contraddizione di fondo.

Brazzà è passato alla storia come un personaggio singolare dell’età coloniale, lontanissimo da uno Stanley (che in Africa si faceva precedere da uno squadrone di fucilieri mentre lui procedeva disarmato e a piedi nudi) e dagli altri esploratori bianchi dell’epoca per i suoi metodi non-violenti e per la sua repulsione verso lo sfruttamento coloniale: contemporaneamente però egli fu un protagonista dell'imperialismo coloniale (francese).

Evidentemente Brazzà pensava che fosse possibile un incontro pacifico e rispettoso fra Europa ed Africa, basato sulla collaborazione e sul rispetto reciproco, ma tanta ingenuità genera più incredulità che stupore.

Eppure, per quanto responsabile di aver collaborato nel consegnare il Congo occidentale alla Francia, nondimeno Brazzà ha lasciato un ottimo ricordo nel Paese che quando finalmente raggiunse l’indipendenza (il 15 agosto 1960) e divenne la Repubblica del Congo volle conservare ‘Brazzaville’ come nome della sua capitale: il 3 ottobre 2006 le spoglie del grande esploratore sono state poi traslate da Algeri nell’immenso mausoleo (di marmo italiano) a lui dedicato nella capitale stessa.

Evidentemente i congolesi seppero leggere nel suo cuore.

 

In ogni caso la Francia non si curò certo della sensibilità di uomini come Brazzà e proseguì imperterrita sulla sua strada: nel 1910 inserì così il Congo (francese) nella ben più vasta Africa Equatoriale Francese (A.E.F.) insieme agli attuali Gabon, Ciad e Repubblica Centrafricana.

La nuova formazione superava i 2,5 milioni di kmq. (cinque volte la Francia stessa) e, spingendosi dal Congo al Sahara, comprendeva regioni equatoriali, tropicali e desertiche: all’interno del suo ibrido mosaico di razze e tribù si andava così dai riservatissimi pigmei delle foreste del sud ai giganteschi Sara del Ciad, dai negri dell’interno ai nomadi arabi dei deserti.

L’A.E.F. col suo stesso esistere costituiva insomma una chiara manifestazione di disprezzo assoluto per i (comunque numericamente piuttosto scarsi) nativi, assommati e gestiti come cose: essi erano considerati completamente malleabili e manipolabili a seconda dei disegni e delle esigenze della ‘madrepatria’ (la chiamavano così), come emerse chiaramente nel corso della lunga e complicata ‘crisi di Agadir’, cioè dello scontro franco-tedesco per le colonie in Africa: esso infatti si concluse il 4 novembre 1911 con un accordo in base al quale la Francia avrebbe avuto mano libera in Marocco mentre la Germania otteneva una zona nel nord-est del Camerun e due strisce del Congo Francese, una lungo il fiume Congo e l’altra lungo il fiume Ubangi.

Erano sempre i nativi, sempre dominati ed oppressi, a pagare sempre i conti di tutti.

 

 

 

 

Lo Stato Libero del Congo

 

Il Libero Stato del Congo non fu mai né libero né uno stato, ma un dominio privato che Leopoldo II gestì senza alcun controllo neppure da parte del governo belga.

Il destino del Libero Stato del Congo fu ancora peggiore di quello del Congo Francese e bisogna riconoscere che Leopoldo II si mosse in fretta e con decisione: soltanto due mesi dopo la conclusione della Conferenza di Berlino, nell’aprile 1885, il parlamento belga autorizzò ufficialmente il re ad assumere le funzioni di capo del nuovo stato.

Nel 1889 a Bruxelles venne organizzata un’apposita conferenza per regolare l’intera questione del nuovo gigantesco possedimento (76 volte il Belgio) ed innanzitutto vi vennero promulgati editti contro la schiavitù – che in Africa esisteva da sempre.

Quello dell’abolizione della schiavitù era stato uno dei motivi che secondo la propaganda della ‘missione civilizzatrice’ avrebbero spinto gli europei ad intervenire in Africa - ed effettivamente la schiavitù fra africani e ad opera dei mercanti arabi venne combattuta ed abolita, ma al prezzo di una generale e feroce sottomissione e massacro dell’intera popolazione africana stessa.

Ben più urgente ed importante per Leopoldo II era però il problema di reperire i fondi necessari per far partire la colonia: era evidente infatti che per poter mettere sotto sfruttamento un territorio così vasto (e la sua popolazione) era necessario organizzarlo e dotarlo almeno delle prime indispensabili strutture - e ciò aveva dei costi non indifferenti.

Un primo passo in questo senso si ebbe quando alla conferenza di Bruxelles si decise di limitare il divieto (sancito a Berlino all’art. 4 che definiva la famosa ‘area di libero commercio e di libera navigazione’) di imporre di diritti all’entrata delle merci nel bacino del Congo: Leopoldo II ottenne in tal modo fondi indispensabili ma ancora insufficienti, sicché già l’anno seguente chiese un prestito di 25 milioni di franchi al Belgio stesso.

In cambio del prestito Leopoldo II si impegnava a lasciare in eredità al Belgio il Congo stesso (popolazione compresa) insieme al diritto di annetterselo entro dieci anni in caso di mancato rimborso del prestito.

La possibilità che un territorio così vasto (e la sua popolazione) fosse nelle mani di un sovrano lontano (e che non si recò mai in Africa) che poteva disporne a suo piacimento e poteva farne quel che voleva perché era cosa sua era giudicato dagli europei del tempo un fatto normale; da quegli stessi europei che avevano sulla bocca le più nobili filosofie basate sulla libertà, sui diritti umani, sul progresso sociale e su quant’altro; da quegli stessi europei che si professavano cristiani, cioè, almeno in linea teorica, ispirati dall’amore e dal rispetto per il prossimo.

Tutta l’Europa era convinta infatti che era il pianeta stesso che andava europeizzato e che le popolazioni non-bianche, così manifestamente inferiori (vuoi per razza, o per ambiente, o per storia, o per cultura, o per un insieme di questi fattori), dovevano essere – per il loro stesso bene! - sottomesse al bianco, nuovo padrone del mondo.

Dall’Europa si infittirono poi anche le partenze dei missionari, arsi dal desiderio e dall’impegno di cristianizzare gli africani, cioè di cancellarne l’identità (giudicata barbara ed indegna) e di riplasmarli secondo i canoni europei (perché si adattassero ancora meglio al pesantissimo giogo coloniale).

Fu in quest’atmosfera e con questa mentalità che Leopoldo II, ora unico e legale proprietario del Libero Stato del Congo, potè procedere con ordine al compimento ed alla sistemazione del suo dominio.

La prima cosa da fare era conoscere la geografia stessa dei luoghi (gli europei in Africa si autoproclamavano padroni di terre – abitanti umani compresi - che non avevano mai nemmeno visto e di cui non avevano idea): in pochi anni l’immenso territorio (di cui Stanley aveva esplorato soltanto l’arteria fluviale principale) fu così percorso da numerosi esploratori belgi o stranieri entrati al servizio del re belga.

La seconda cosa da fare era assicurarsi il dominio dei luoghi: ad est delle cascate di Stanley i belgi entrarono così in conflitto coi commercianti arabi che dalla loro base a Zanzibar trafficavano in schiavi ed in avorio e che non avevano la minima intenzione di cedere il passo ed anzi stavano espandendo il loro raggio d’azione.

Con una serie di azioni militari durate diversi anni (dal 1892 al 1898) furono i belgi con la loro Forza Pubblica (composta di africani provenienti da altre zone, ma anche da tribù locali che comprensibilmente odiavano gli schiavisti) a prevalere nettamente e a spazzare via gli arabi dall’intero Congo, così da potersi insediare sicuramente nella zona dove fondarono Albertville (sul lago Tanganika) ed Elisabethville (nel Katanga).

 

Lo sfruttamento dello Stato Libero

 

Leopoldo II fu sempre sincero circa i motivi che ne animavano l’azione: fin dall’inizio egli volle fare dello Stato Libero del Congo una colonia produttiva ed instaurarvi un sistema atto a sfruttarne le ricchezze al massimo livello possibile – e senza il minimo riguardo per gli uomini che col loro lavoro lo rendevano possibile.

Fin dal luglio 1885 tutte le terre libere (cioè quelle non occupate dai villaggi e destinate alla coltivazione necessaria alla sopravvivenza) vennero dichiarate proprietà dello stato (cioè di Leopoldo II) e la formula ‘terre libere’ – almeno i 9/10 del paese - venne interpretata in un senso molto (diciamo così) ampio: si trattò di un gigantesco esproprio che rendeva ladro l’indigeno che avesse preso o venduto qualsiasi prodotto o risorsa della terra non strettamente riconosciuta non-statale.

Le possibilità economiche del paese vennero attentamente studiate ed in vista di una loro valorizzazione si iniziò subito la costruzione di infrastrutture, soprattutto di numerose linee ferroviarie.

La linea ferroviaria di gran lunga più importante fu così quella che collegò il Basso Congo (verso la costa) col corso navigabile dell’Alto Congo, visto che i due tratti del fiume erano separati tra loro dalla zona delle cateratte che bloccava la navigazione. Quest’opera fu realizzata dal 1890 al 1898 a costo di grandissimi sacrifici (della popolazione indigena, s’intende) e sotto la guida dell’espertissimo tenente colonnello Thys: anche in questo caso fu il Belgio a sostenere tutte le spese, ma con la ferrovia fu accelerato di molto lo sviluppo economico del paese, basti pensare al trasporto delle ingenti quantità di rame (scoperto nel 1892 nel Katanga, cioè nella parte meridionale del paese).

Nel 1891 il Libero Stato del Congo (cioè Leopoldo II) si riservò il monopolio delle due maggiori risorse economiche, il caucciù e l’avorio, ma anche dei minerali del sottosuolo, il cui sfruttamento fu concesso a varie compagnie private con accordi di affitto della durata di 99 anni.

Tutto ciò, unito alla sopraddetta soppressione dell’ ’area di libero commercio e di libera navigazione’ produsse immensi profitti, anche perché proprio in quegli anni Dunlop aveva inventato il pneumatico in gomma per le biciclette (1888) e Michelin per le automobili (1895) e dunque la richiesta di caucciù era schizzata alle stelle.

 

I sistemi di sfruttamento della manodopera furono fra i più violenti e sanguinari che la crudeltà degli sfruttatori riuscì mai ad immaginare ed addirittura peggiori di quelli adottati nel Congo Francese.

La raccolta ed il traffico del caucciù (la massima risorsa del paese), dell’avorio, delle gomme resinose e degli olii, furono imposti agli indigeni sottoposti ad un regime di (semi)schiavitù, di sfruttamento intensivo, di permanente ricatto e di illimitata violenza: è esemplare di questo regime di orrore come era organizzata la raccolta del caucciù.

Il Congo fu uno dei più grandi serbatoi di caucciù del mondo proprio quando la scoperta del processo di vulcanizzazione della gomma ed il suo impiego industriale resero questo prodotto fondamentale per l’intero Occidente: la sua raccolta ed il trasporto fino al mare vennero così organizzati con grande cura.

A tutti gli africani (ufficialmente chiamati ‘cittadini’) fu imposto di raccogliere il caucciù senza alcun compenso e ogni villaggio doveva consegnare agli emissari del re-proprietario una certa quota del prezioso prodotto vegetale: nella relazione della Commissione d’inchiesta (belga) del 1906 si legge che “Nella maggioranza dei casi l’indigeno deve compiere ogni due settimane un viaggio di un giorno o anche più per raggiungere nella foresta un luogo con una quantità sufficiente di alberi della gomma. Qui conduce una misera esistenza. Deve costruirsi un riparo temporaneo che non può sostituire la sua capanna; non ha il suo cibo abituale ed è esposto alle intemperie del clima tropicale e agli attacchi di bestie feroci. Deve poi portare il prodotto raccolto all’agenzia dell’amministrazione (o della compagnia); solo allora può tornare al suo villaggio, dove rimane appena due o tre giorni prima che gli venga assegnato un nuovo compito. Di conseguenza la maggior parte del suo tempo è occupata nella raccolta del caucciù”.

Oltre al prezioso caucciù ogni villaggio doveva consegnare poi all’amministrazione 5 pecore o maiali o 50 galline, 125 carichi di manioca, 15 di granturco o arachidi e 15 di patate dolci.

L’intero villaggio doveva lavorare infine (gratis) un giorno su quattro alle opere pubbliche, ma l’intera popolazione di una zona poteva essere precettata se necessario.

Altro lavoro forzato terribile era quello di portatore: anche in questo caso le persone vi venivano costrette con la forza e se morivano di fatica e di stenti, poco male, tanto sul cammino se ne potevano sempre trovare altre.

 

A fare il lavoro sporco, cioè assicurare che la popolazione obbedisse ed adempisse agli obblighi imposti, erano circa 2mila agenti bianchi - in genere malpagati delinquenti malfamati in patria - disseminati nei singoli villaggi e nei punti più importanti del paese: ogni agente comandava un certo numero di nativi armati (detti ‘capitani’), guardie africane di etnie diverse reclutate in altre regioni o anche agenti prezzolati dello stesso villaggio da controllare.

Il controllo era capillare: chi si rifiutava di lavorare o consegnava quantità di prodotto inferiori a quelle richieste era punito fino alla mutilazione: a chi non raggiungeva la quota imposta di caucciù veniva infatti tagliata una mano o un piede, alle donne le mammelle.

Con l’incoraggiamento dell’amministrazione, guardie e agenti perpetravano liberamente atti di inaudita ferocia; portavano via donne e beni a piacimento; al minimo segno di resistenza mutilavano i malcapitati o li uccidevano.

Contro i ribelli si ricorreva all’assassinio, a spedizioni punitive, a distruzioni di villaggi, alla presa in ostaggio di donne e bambini.

Sempre secondo il rapporto della Commissione d’inchiesta, quando le compagnie organizzavano spedizioni punitive contro i villaggi, uomini, donne e bambini venivano uccisi senza pietà.

Siccome era stabilito esplicitamente che non andavano sprecati colpi d’arma da fuoco (!), per dimostrare che ciò non era avvenuto ogni guardia doveva portare all’amministrazione una mano tagliata per ogni colpo sparato: in un solo anno in uno solo dei distretti che producevano caucciù vennero consumate 40mila pallottole (e quindi un numero analogo di mani vennero mozzate).

Per dimostrare poi che si sparava sugli uomini si cominciò anche a portare indietro come prova il pene anziché la mano.

Visto che le mani tagliate erano anche la punizione per lo scarso rendimento, il loro numero cresceva in proporzione al calo della produzione e gli indigeni impararono addirittura che a volte il sacrificio ‘volontario’ di una mano poteva salvar loro la vita.

Il sistema di controllo era tanto efficace e perverso che se la quota ottenuta era inferiore a quella stabilita anche i ‘capitani’ subivano fustigazioni e/o mutilazioni: l’obiettivo era chiaro – spingere anche col terrore i controllori ad essere spietati, come se la naturale ferocia ed avidità di questi mostri non fosse ancora sufficiente.

Un sistema repressivo di questo genere serviva molto bene le compagnie concessionarie e lo stesso Leopoldo II: tutti realizzavano infatti profitti vertiginosi.

 

Genocidio?

 

Il missionario Van Wing sintetizzò bene la situazione quando affermò che “La colonizzazione ha spopolato il centro dell’Africa più di quanto abbia fatto in tre secoli la tratta degli schiavi”: nei suoi 23 anni di esistenza, nel Libero Stato del Congo morirono infatti circa 10 milioni di persone, sia direttamente per le uccisioni, i maltrattamenti e le violenze dello sfruttamento e della repressione, che indirettamente per le epidemie e per la fame dovuta alla distruzione punitiva dei raccolti (si arrivava anche a questo).

A queste cause va aggiunta la caduta del tasso di natalità: un missionario giunto in Congo nel 1910 fu stupito dall’assenza quasi totale di bambini tra i 7 e i 14 anni – di quelli cioè che sarebbero dovuti nascere tra il 1896 e il 1903, nel periodo in cui la raccolta di caucciù aveva raggiunto il suo apice.

Nel corso dell’intera durata del Libero Stato del Congo a causa dell’oppressione coloniale perse quindi violentemente ed innaturalmente la vita quasi la metà della sua popolazione, che nel 1880 era stimata essere fra i 20 ed i 25 milioni di abitanti.

Ma questa folle strage fu un vero genocidio?

Per comprendere veramente il senso di quanto accadde bisogna porsi e rispondere anche ad una domanda come questa – e, senza voler togliere nulla alla vergogna senza fine della mattanza congolese, bisogna rispondere negativamente: essa non fu genocidio perché le mancò un elemento fondamentale del genocidio, e cioè l’esplicita volontà di sopprimere deliberatamente un gruppo umano (per qualsivoglia motivo) in quanto tale.

Leopoldo II non voleva eliminare i congolesi nè li ritenne mai oggetto di un progetto di sterminio: ne aveva invece bisogno perché, oltre a volerli rapinare di tutto quel che avevano, egli voleva anche e soprattutto sfruttarli e sottometterli al lavoro più intenso per ottenere da loro il massimo che potevano dargli.

I milioni di morti per lui erano insomma un (del tutto trascurabile) danno collaterale, uno dei prezzi della messa in produzione del Congo, l’inevitabile usura di uno strumento di lavoro.

In definitiva l’indigeno doveva rendere il massimo possibile e non esistevano limiti alla ferocia con cui glielo si strappava, ma non era qualcuno da eliminare in quanto tale: che senso avrebbe avuto, visto che – ripetiamolo ancora - quel che interessava era rapinarlo di tutto quello che aveva ma anche e soprattutto farlo lavorare col massimo sfruttamento possibile?

A cosa sarebbe servito il Congo senza il lavoro (servile, s’intende) dei congolesi?

I congolesi dovevano insomma continuare ad esistere!

I congolesi non erano quindi nemmeno odiati (e perché poi?) né si pensava che il mondo sarebbe stato (diciamo così) più puro e migliore senza di loro.

Trattati peggio di animali e di cose e come semplice oggetto di sfruttamento, i congolesi non erano degni nemmeno di odio - disprezzati senza fine com’erano dall’altezzoso e superbo uomo bianco.

Ancora oggi queste carneficine, che si protrassero costantemente per così tanti anni, rimangono praticamente sconosciute – del resto come tutte le altre perpetrate dai colonialisti.

 

Questo terribile discorso sembrerebbe concluso, eppure per chiarirlo ancora meglio vale la pena prestare attenzione ad un argomento che Leopoldo II non esitava a sfoderare quando veniva accusato dell’orrore nella sua colonia.

Rivolgendosi alle altre potenze coloniali – quelle che pretendevano che il loro colonialismo fosse migliore, votato all’aiuto ed allo sviluppo delle popolazioni indigene - Leopoldo II le invitava tutte a guardare meglio ognuna in casa propria: egli per esempio agli americani rinfacciava lo sterminio dei pellerossa, ai tedeschi l’eliminazione degli Herero in Namibia (a questo proposito vedi il paragrafo ‘Mez Yeghèrn e Shoah’ nel mio “Il genocidio armeno”); agli inglesi gli orrori della guerra anglo-boera; ai francesi di applicare nella loro Africa Equatoriale gli stessi suoi metodi (lavoro forzato, ostaggi, distruzione di villaggi, ecc.); e così di seguito.

Nonostante questoa (chiamiamola così) ritorsione di accuse addotta in propria difesa riveli con ogni evidenza tutta l’insondabile miseria d’animo di Leopoldo II, essa tuttavia contiene anche un elemento di verità perché svela senza lasciar dubbi la ineliminabile contraddizione del colonialismo.

Che senso ha cianciare di ‘missione civilizzatrice’ dell’uomo bianco in Africa, pretendere di essere là per aiutare, sostenere e fare il bene delle popolazioni indigene, affermare di voler provvedere e prendersi cura di loro, raccontare cioè questi cumuli di sciocchezze che non reggono di fronte al minimo sguardo conoscitore?

Non è più (si fa per dire) onesto e sincero non cercare di infiocchettare tanto ipocritamente con simili altisonanti proclami di benemerenza l’opera di rapina, di sfruttamento e di dominio che fu il colonialismo?

Insomma: se si va per rapinare, sfruttare e dominare, si rapini, si sfrutti e si domini!

Se invece non si vuole rapinare, sfruttare e dominare, allora si resti a casa propria!

Leopoldo II nella sua opera di aggressione totale fu almeno logico e conseguente, anche se, ovviamente, questa non può certo essere considerata un’attenuante.

 

Lo scandalo

 

Per molti lunghi anni Leopoldo II fu lasciato indisturbato e libero di procedere come voleva in Congo e se si vuol capire come mai l’opinione pubblica impiegò tanto tempo a fermare le sue atrocità, si trova che la spiegazione è semplice.

In primo luogo, più di un secolo fa essere informati su quel che succedeva in un territorio così lontano e dove si recavano soltanto gli addetti al colonialismo era praticamente impossibile e così l’orrore poteva svilupparsi lontano da sguardi indiscreti.

In secondo luogo, parlamento ed opinione pubblica belga in generale consideravano l’intera impresa coloniale in Congo come un affare privato del sovrano in cui preferivano non entrare.

In terzo luogo, Leopoldo II spese cifre enormi per corrompere e manipolare la stampa, arrivando a creare addirittura un apposito ufficio di disinformazione che mascherasse i suoi crimini.

Eppure, col tempo, sempre più Leopoldo II cominciò ad essere messo di fronte all’orrore che vigeva nella sua colonia: dopo che avevano cominciato a trapelare, le notizie delle atrocità commesse nel Libero Stato del Congo di Leopoldo II presero infatti a diffondersi in modo inarrestabile.

Agli inizi del nuovo secolo la stampa europea ed americana prese a rivelare quali erano le reali condizioni della colonia; gli addebiti mossi - come quelli formulati dalla società fondata da Edmund Morel (che nel 1906 avrebbe poi scritto ‘Red Rubber’, un famoso e terribile resoconto dell’inferno congolese), dallo statunitense Adam Hochschild (“King Leopold’s Ghost” tradotto “Gli spettri del Congo”), da Mark Twain (“King Leopold Soliloquy. A defence of His Congo Rule” del 1905), dal console britannico Roger Casement (che nella sua relazione del 1904 definì quello del Congo uno degli “scandali internazionali più infami di fine secolo”) e dal nero americano G. W. Williams (che, partito per il Congo nel 1890 e constatata l’entità del martirio inflitto ai congolesi, scrisse una lettera a Leopoldo II rinfacciandogli che i servizi pubblici efficienti da lui sbandierati erano un’impostura e che in Congo non vi erano né scuole né ospedali, ma solo qualche capanna ‘neppur degna di ospitare un cavallo’) - fecero scalpore mentre anche i resoconti dei missionari, sia cattolici che protestanti, scossero sempre più profondamente l’opinione pubblica - dapprima quella mondiale ed europea, poi finalmente anche quella del Belgio.

Oltretutto qui si trattava di un caso più unico che raro, come precisò Mark Twain nella sua lapidaria conclusione: “La brama di conquista è propria di un re … ci siamo abituati; … ma la brama di denaro … non per l’arricchimento della nazione, ma per quello del re soltanto, questo è un fatto nuovo.”

A ben poco a Leopoldo II servì ricorrere alla (solita) scusa dello scaricabarile, sostenere cioè di non essere a conoscenza - e quindi di non essere responsabile - di ciò che i suoi agenti facevano nella colonia: nel Belgio stesso lo scandalo crebbe in modo tale che nel 1904 il sovrano (come a suo tempo anche il governo francese aveva dovuto fare) fu infine costretto a permettere che una commissione internazionale parlamentare d’inchiesta potesse entrare nello Stato Libero del Congo per condurvi un’indagine conoscitiva: la relazione che questa commissione rese nota l’anno seguente non potè che confermare la maggior parte delle accuse e delle rivelazioni mosse da tante parti ai sistemi di Leopoldo II e delle società concessionarie.

Il parlamento belga si convinse così che Leopoldo II non era più in grado di gestire la colonia e la rivendicò per sé: al re non restò altro da fare che rassegnarsi e concludere con il suo stesso Paese il trattato del 28 novembre 1907 (proprio quando nel Katanga era stato appena scoperto il primo diamante) in base al quale il Libero Stato del Congo, frutto della sua iniziativa e del suo lavoro, diveniva una colonia del Belgio.

Nulla può testimoniare meglio la cattiva coscienza di Leopoldo II del fatto che, prima di consegnare ufficialmente al Belgio la sua colonia personale, per otto giorni consecutivi egli ne bruciò la maggior parte degli archivi.

 

 

Il Congo Belga

 

Il 15 novembre 1908 nacque il Congo Belga (detto anche ‘Congo-Lèopoldville’), colonia posseduta ed amministrata dallo stato come tutte quelle degli altri stati europei.

Secondo il nuovo ordinamento era il Parlamento (belga) che esercitava il potere legislativo sul Congo Belga, mentre quello esecutivo spettava al Ministro (belga) degli Affari Coloniali assistito da un Consiglio Coloniale, entrambi risiedenti a Bruxelles.

Il più alto funzionario in carica nel Congo Belga stesso era il Governatore Generale: dal 1886 al 1926 egli e la sua amministrazione risiedettero a Boma, nei pressi della foce del fiume Congo, poi dal 1926 la capitale coloniale fu trasferita a Lèopoldville (l’odierna Kinshasa), circa 300 km. più all’interno (ma ovviamente sempre sul fiume).

Inizialmente il Congo Belga fu diviso amministrativamente in quattro province, ciascuna presieduta da un vice-governatore generale, poi nel 1932 una riforma amministrativa aumentò il loro numero a sei, retrocedendo i vice-governatori generali al ruolo di governatori provinciali.

Tuttavia la vastità del territorio da organizzare e controllare comportò anche una certa decentralizzazione delle strutture amministrative e nacque così una sorta di governo ‘misto’ nel quale le funzioni più semplici vennero progressivamente affidate ad organismi locali composti da nativi.

Ogni provincia fu divisa infatti in un certo numero di distretti (24 in tutto) e ciascun distretto in territori (circa 120 in tutto): questi territori, gestiti da un amministratore del territorio e da una manciata di assistenti (belgi), erano spesso più grandi di più province belghe sommate insieme, così a loro volta vennero ulteriormente divisi in numerose ‘chefferies’, a capo delle quali l'amministrazione belga nominava ‘capi tradizionali’, cioè indigeni, i ‘coutumiers chefs’.

Sistema analogo venne adottato nella giurisprudenza, dove a corti europee si affiancavano tribunali indigeni che, presieduti dai capi tradizionali, avevano comunque poteri limitati ed erano controllati dall'amministrazione coloniale belga.

Il servizio territoriale fu comunque la vera spina dorsale dell'amministrazione coloniale: l'ordine pubblico nella colonia era mantenuto dalla Forza Pubblica, un esercito reclutato localmente, ma ovviamente sotto comando belga.

(Sarà solo nel 1950 che truppe metropolitane, cioè unità regolari dell’esercito belga, verranno trasferite nel Congo Belga)

 

La nuova amministrazione si preoccupò anche di migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei congolesi: già il 18 ottobre 1908 venne emanata una nuova Carta coloniale che all'articolo 3 aboliva il lavoro forzato stabilendo che "Nessuno può essere costretto a lavorare in nome e per il profitto di società o di privati", venne redatto un nuovo Codice del lavoro per gli addetti alle miniere e ben presto seguirono numerosi altri decreti, emanati per impedire lo sfruttamento abusivo della manodopera indigena e per restringere i privilegi delle società concessionarie.

Mentre si cercava di rispettare le forme tradizionali della società africana, nuove priorità, come la sanità pubblica e l'istruzione di base per la popolazione indigena, lentamente vennero acquisendo crescente importanza.

Per guarire le ferite del periodo leopoldino furono insomma ripensati gli strumenti ed i metodi della politica coloniale: furono così soppressi i monopoli sui prodotti agricoli, limitata l’espropriazione delle terre appartenenti alle comunità, rinegoziate le vecchie concessioni e ricondotte sotto più stretti controlli le varie compagnie concessionarie.

 

E’ indubbio che le condizioni dei congolesi migliorarono e che da parte belga si cercò perlomeno di frenare lo sfruttamento brutale e l’uso arbitrario della violenza delle società concessionarie - che si volle insomma porre fine alla tragedia che ormai era nota come "gomma rossa" - ma in realtà, se il passaggio dallo Stato Libero del Congo al Congo Belga costituì una rottura, fu però anche caratterizzato da un elevato grado di continuità: l'ultimo governatore generale del Libero Stato del Congo, il barone Wahis, rimase al suo posto anche nel Congo Belga (e con lui la maggior parte degli amministratori di Leopoldo II) mentre intere regioni del vasto e difficilmente penetrabile Congo continuarono poi ad essere dominate dalle grandi imprese finanziarie e minerarie di prima (come Unilever, Société Générale du Belgique, Union Minière du Haut Katanga).

Era la ineliminabile contraddizione del colonialismo che continuava a rendere velleitari ed impossibili i propositi della Carta coloniale perchè l’apertura del Congo alla penetrazione europea e l’accaparramento delle sue ricchezze naturali e minerali erano stati e rimanevano i motivi dell’espansione coloniale - e fu sempre per conseguire questi obiettivi che il nuovo padrone, lo stato belga, continuò a costruire le sempre più necessarie infrastrutture (ferrovie, strade, ponti, ecc.) e volle migliorare la vita dei congolesi.

Il Congo Belga rimaneva pur sempre una colonia il cui scopo rimaneva lo stesso – arricchire il suo padrone - seppur con sistemi meno brutali: il somaro doveva continuare a gemere sotto il suo pesante carico, solo che adesso invece delle sole bastonate riceveva anche qualche zuccherino.

Lo sfruttamento era diventato più (diciamo così) umano – o forse più intelligente – ma sfruttamento era stato e sfruttamento rimaneva: i nuovi metodi di gestione e di dominio insomma non si differenziarono poi tanto (né poterono!) da quelli leopoldini ed il lavoro forzato (in diversi forme e gradi) non scomparve mai (né potè!) del tutto fino alla fine del periodo coloniale.

Infine mai va dimenticato che continuava ad esser dato per ovvio e scontato che i congolesi non erano né potevano essere padroni in casa propria – erano giudicati troppo arretrati ed inferiori perché la questione della loro indipendenza e libertà potesse solo essere presa in considerazione.

Proprio ora si verificò invece un forte afflusso di emigranti europei che si insediarono soprattutto sulla costa: il numero di belgi residenti in Congo salì infatti da 1.187 nel 1900 a 1.928 nel 1910, a 3.615 nel 1920, a 17.676 nel 1930 (e a 17.356 nel 1939).

 

Il Congo durante la prima guerra mondiale

 

Solo parzialmente gli eventi della prima guerra mondiale coinvolsero l’Africa – che comunque dovette fornire uomini (soprattutto senegalesi alla Francia), mezzi e risorse all’onnivora fornace bellica in Europa.

Oltre ad aumentare per le necessità belliche lo sfruttamento di uomini e cose, tutte le nazioni europee in lotta utilizzarono poi nei combattimenti e nelle altre operazioni di guerra reparti coloniali di colore, cioè truppe formate da soldati indigeni reclutati a forza e comandati da ufficiali (naturalmente) bianchi: gli africani vennero cioè trascinati in un conflitto del tutto estraneo e per loro incomprensibile - quindi ulteriormente sfruttati e sottomessi alla volontà ed agli interessi delle Potenze Europee dominatrici cui furono costretti a pagare anche questo ulteriore tributo di sangue, di sofferenza e di sfruttamento.

 

In Africa le Potenze Europee che se l’erano spartita e che l’avevano conquistata furono ora tutte in guerra contro la Germania (l’Austria-Ungheria non aveva possedimenti nel Continente Nero).

La Germania non era mai stata una potenza coloniale vera e propria e poco aveva creduto e poco si era curata di espandersi veramente al di fuori dell’Europa, mentre da secoli altre nazioni erano partite alla conquista del mondo: quand’era giunta (per ultima) all’unificazione nazionale ed aveva fatto qualcosa per ottenere anche lei possedimenti oltremare (come a Berlino nel 1885) essa aveva così dovuto accontentarsi di quel che aveva trovato ancora (diciamo così) disponibile.

Allo scoppio delle ostilità in Europa, l'impero coloniale tedesco in Africa era costituito da Africa Tedesca del Sud (Namibia), Africa Orientale Tedesca (Tanganika, poi Tanzania), Camerun e Togo - possedimenti isolati e scollegati fra loro, certamente non il frutto di una meditata strategia.

La posizione della Germania in Africa era insomma territorialmente del tutto residuale ed interstiziale rispetto a quella soprattutto di Francia e di Inghilterra - potenze (ora alleate) con le quali si schierarono ora anche Belgio, Italia e Portogallo, cioè tutte le altre nazioni europee che avevano colonie africane.

Fu inevitabile allora che i domini tedeschi in Africa, oltretutto isolati dalla madrepatria a causa del controllo alleato dei mari, uno dopo l'altro vennero strappati alla Germania da inglesi, francesi e belgi: subito il Togo, poi nel 1915 l'Africa Tedesca del Sud (nonostante ai tedeschi si fossero uniti i boeri sudafricani ribelli agli inglesi).

Per quanto riguarda il Congo, esso venne attaccato dai tedeschi allo scoppio della guerra ma questi furono però presto respinti dalle truppe francesi e belghe unite che nel 1914-15 conquistarono anche il Camerun e la colonia tedesca del Rwanda-Urundi, (cioè i territori che la Francia aveva ceduto alla Germania nel 1911 al tempo della crisi di Agadir).

Solo l'Africa Orientale Tedesca sotto la sapiente guida militare del generale von Lettow-Vorbeck sarebbe riuscita a resistere fino al 1918, ma anche questa avrebbe finito per cedere ai belgi ed agli inglesi uniti.

 

Il Congo fra le due guerre mondiali

 

L’onda sismica del terremoto della prima guerra mondiale in Europa era arrivata dunque anche in Africa – e ciò valse anche per i suoi effetti.

Mentre a Versailles la geografia politica dell’Europa veniva profondamente cambiata (e complicata), gli stati europei uscirono dalla prima guerra mondiale gravemente impoveriti ed indeboliti – ed i loro imperi d’oltremare cominciarono di conseguenza a traballare.

Un altro motivo delle difficoltà crescenti negli imperi coloniali fu che gli indigeni avevano constatato quanto gli europei – che avevano sempre dato l’impressione di unità, collaborazione e condivisione delle stesse religione e civiltà - erano invece divisi fra loro e potevano essere sconfitti.

Agli occhi dei dominati d’oltremare il prestigio degli europei era insomma pericolosamente scemato ed i tempi delle loro grandiose e scintillanti esposizioni sugli imperi coloniali - come ad esempio la ‘Colonial and Indian Exposition’ a Londra nel 1886, l’ ‘Exposition internationale et coloniale’ a Lione nel 1994, l’ ‘Exposition universelle et internationale’ a Liegi nel 1905 ed il ‘Festival of Empire’ a Londra nel 1911 – in cui celebravano nel fasto imponente e colle sciamanti moltitudini di visitatori la loro gloria e la loro solidità sembravano ormai avviati al tramonto.

 

In queste condizioni non stupisce dunque che nel Congo Francese (parte dell’A.E.F.)

tra il 1921 ed il 1941 sorgessero e si diffondessero movimenti profetico-religiosi (come quelli di Simon Kimbangu, di Simon-Pierre MPadi e soprattutto di André Matsua) che predicavano la disobbedienza alle autorità coloniali e la rivolta e la cacciata definitiva degli odiati bianchi.

Seguirono inevitabili e gravi disordini cui le autorità coloniali risposero con (le solite) dure repressioni: ancora una volta fu messa in opera la (solita) sequela di violenze, torture, uccisioni, devastazioni e rappresaglie da parte di chi nella patria (europea) sbandierava i più nobili ed altisonanti principi universali di libertà e di uguaglianza mentre nelle colonie infieriva senza pietà su chi li chiedeva anche per sé.

Non si finirà mai di sottolineare e ribadire questa macroscopica contraddizione del colonialismo che, senza bisogno di aggiungere altre parole, basta enunciare perché risulti evidente.

Le autorità coloniali francesi vollero comunque valorizzare ulteriormente la colonia e, fra l’altro, nel 1921 diedero così inizio alla costruzione della ferrovia Brazzaville-Mayombè che venne ultimata nel 1934 al costo di un impressionante tributo di vite umane (indigene, s’intende).

 

Anche nel Congo Belga a partire dal 1921 cominciarono a diffondersi movimenti di rivolta, anche qui guidati in genere da profeti come il bantù Simon Kibangu (che sarebbe morto in carcere) e Busiri (la cui sommossa sarebbe stata repressa nel sangue), mentre il diritto anche degli africani ad avere sindacati (pur concesso sulla carta) venne osteggiato anche dagli stessi operai bianchi.

In perfetto stile coloniale nel 1924 la Società delle Nazioni concesse al Belgio il Rwanda-Urundi che, strappato alla Germania, venne ora annesso al Congo Belga e ne divenne la settima provincia.

Intanto la colonia si rivelava di ora in ora sempre più ricca di risorse: al caucciù, ai legni pregiati, al caffè, all’olio di palma ed all’avorio ora si aggiunsero infatti le miniere di rame del Katanga (nel sud del paese) e (sempre nella sessa regione) quelle di diamanti, nonché la scoperta di stagno, zinco, cobalto, manganese e oro in quantità massicce nelle province orientali.

Con una bilancia commerciale così favorevole il Belgio si propose di attuare miglioramenti sociali in settori come istruzione, sanità, abitazione e questo (cauto) riformismo si poneva sulla scia delle iniziative prese dal governo belga fin da quando aveva ottenuto il Congo dal re.

Con simili iniziative il Belgio si proponeva di rendere meno duro e più accettabile il dominio coloniale - e quindi di allontanare il rischio di rivolte e sommosse: i dominatori coloniali continuavano insomma a pensare che non sarebbero mai andati via dal Congo e che conseguentemente era nel loro stesso interesse migliorare le condizioni di vita dei suoi abitanti.

Tanta cecità (fondata sul disprezzo senza fine per gli indigeni) stupisce ma, oltretutto, quelli adottati erano provvedimenti a) del tutto interessati, perché miravano a formare lavoratori sottoposti più sani e meglio adeguati allo sfruttamento del paese; b) paternalistici, perché gestiti dall’alto e senza il proposito (che sarebbe stato semplicemente insensato in una colonia) di elevare veramente il livello di vita delle popolazioni indigene (fino al 1950, per esempio, l’istruzione superiore fu praticamente inesistente e nel 1953 c’era una scuola secondaria ogni 870 scuole elementari); infine c) razzisti, come mostrano i seguenti esempi: posto che una legge (leopoldina) del 1898 obbligava bianchi e neri a risiedere in zone diverse della città, nel 1926 un’ordinanza stabilì che però gli amministratori territoriali potevano permettere eccezioni (forse per usufruire con maggiore comodità della servitù indigena); ai congolesi era proibito l’uso di alcolici e di circolare nelle ore notturne (divieto in vigore fino al 1959); essi non avevano accesso alla partecipazione nel governo generale e all’amministrazione delle province in cui era divisa la colonia; solo a livello locale i capi tribali potevano esercitare una qualche autorità; soldati e poliziotti di colore non venivano addestrati per accedere a posti di responsabilità (almeno fino al 1957) anche se erano serviti (e sarebbero serviti ancora) ottimamente come carne da cannone sui campi di battaglia delle guerre scatenate dai loro padroni.

Così sentivano e ragionavano i colonialisti (diciamo così) ‘dal volto umano’, quelli che pretendevano che il giogo da loro imposto andasse a vantaggio di quelli stessi che se lo dovevano portare sul collo.

 

Il Congo nella seconda guerra mondiale

 

In seguito alla sconfitta nella prima guerra mondiale la Germania aveva perso tutte le sue colonie asiatiche ed africane - e dunque nella seconda guerra mondiale il Congo ed i congolesi giocarono un ruolo diverso che nella prima, ma, inaspettatamente, ben più importante.

Gli eventi del secondo conflitto mondiale sono troppo noti perché abbia senso ripeterli ancora una volta e qui basterà invece ricordare solo quelli strettamente attinenti al Congo stesso.

Il 10 maggio 1940, ponendo fine alla ‘drole de guerre’ (alla ‘strana guerra’), l’esercito tedesco per invadere la Francia entrò e diede inizio all’occupazione dell’Olanda e del Belgio e, esattamente com’era avvenuto nel 1914, ne violò l’inutile e protestata neutralità: il piccolo esercito belga venne presto circondato dalla potente macchina da guerra tedesca e già il 27 maggio re Leopoldo III decise di arrendersi.

Leopoldo III rifiutò però di seguire il suo stesso governo che – condannata la sua resa - fuggì prima a Bordeaux e poi a Londra: egli si consegnò invece ai tedeschi che lo relegarono nel castello di Laeken - da dove sarebbe stato prelevato nel 1944 con tutta la famiglia e portato in un campo di prigionia, prima in Germania e poi in Austria, da dove sarebbe stato liberato solo nel maggio del 1945.

Il governo belga in esilio, guidato da Spaak e da Pierlot, continuò invece a lottare: istituì la Legione Belga che coordinò i vari gruppi di resistenza organizzati nel Belgio occupato e, soprattutto, mantenne il controllo sui possedimenti coloniali belgi (Congo Belga e Rwanda-Urundi) - fonte fondamentale di risorse e di reddito.

 

Eventi molto simili si verificarono in Francia che l’esercito tedesco schiacciò irrimediabilmente con la successiva e famosissima guerra-lampo.

Così come aveva fatto re Leopoldo III, anche il maresciallo Philippe Pétain si arrese alla Germania il 22 giugno 1940 – dando poi vita alla collaborazionista Repubblica di Vichy - ma, come il governo belga, anche il generale Charles De Gaulle riuscì a riparare a Londra e a costituirvi ‘Francia Libera’, il governo di resistenza antifascista ben deciso a continuare la guerra fino alla vittoria.

Fin dall'agosto 1940 l’A.E.F. si unì alle Forze Libere Francesi guidate da Félix Éboué (ad eccezione del Gabon che si schierò invece con la Repubblica di Vichy e ne diventò un importante avamposto in Africa) e mentre Pétain (sempre come Leopoldo III) aveva rifiutato di continuare la guerra contro la Germania, Brazzaville divenne invece la capitale della ‘Francia Libera in Africa’, dove operò il ‘Consiglio di Difesa dell'Impero’ istituito da De Gaulle il 27 ottobre 1940.

Francia Libera riuscì dunque a mantenere sotto i suoi direzione e comando praticamente tutta l’Africa sub-sahariana francese.

Per parte loro, le autorità ed il governatore del Congo Belga Pierre Ryckmans, riconosciuto il governo belga in esilio, coll’approvazione di quest’ultimo il 26 novembre 1940 dichiararono guerra all’Italia, alleata della Germania (che non era in grado di intervenire in Africa) e potenza coloniale in Eritrea, in Somalia e, soprattutto, in Etiopia.

Il passo era più politico che militare dato che le capacità belliche del Congo erano limitate, tuttavia i belgi con questa mossa intesero accreditarsi come parte vitale della coalizione anti-Asse (e non come semplici vittime) per porre le basi del riconoscimento del loro governo in esilio come quello legittimo dopo la liberazione.

La scelta del governo in esilio belga si dimostrò lungimirante, soprattutto se si tiene presente che dopo la netta vittoria tedesca in occidente ed il rovinoso crollo della Francia molti credettero che i nazisti avessero vinto la guerra, che la vittoria dell'Asse in Europa sarebbe stata presto seguita da una analoga nel Nord Africa e che, fra l’altro, forze tedesche e italiane avrebbero presto raggiunto anche il Congo (così ricco di importanti risorse).

Fu in questo clima che gruppi di estrema destra belgi coordinati dall’ ‘Organizzazione Rex’ proposero di reclutare un corpo di piloti e di ufficiali belgi che a capo di un reggimento di soldati coloniali avrebbero dovuto collaborare coi tedeschi in una futura invasione del Congo: i tedeschi però ignorarono l’offerta e due battaglioni congolesi (la Forza Pubblica comandata dal generale Gillaert fornì un totale di 40mila uomini), fedeli al governo in esilio belga combatterono invece dalla parte degli inglesi durante l’offensiva anti-italiana in Africa Orientale del 1941 (dove i tedeschi non poterono intervenire) fornendo un contributo importante alla campagna.

I congolesi compirono davvero un’impresa memorabile: il loro era un esercito composto da soldati che fino a quel momento erano stati poliziotti locali nel Congo Belga eppure esso marciò per 2.500 km. attraverso le paludi della giungla e le desolazioni del deserto finchè la loro azione aggressiva contro le forze numericamente superiori italiane si concluse con la resa del generale Gazzera.

Nello stesso 1941 le truppe italiane venivano inesorabilmente spazzate via da tutta l’Africa Orientale Italiana che crollava miseramente mettendo definitivamente a nudo l’imperdonabile velleitarismo di Mussolini e della sua grottesca pretesa di costruire un impero nel Corno d’Africa senza averne le forze e le risorse necessarie.

L’anno seguente le vittoriose truppe congolesi si unirono alle forze coloniali britanniche in Nigeria (la West African Frontier Force); in seguito soldati congolesi furono in Egitto dove custodirono scorte e prigionieri di guerra nei campi.

 

Eppure, per quanto questi successi siano stati importanti nello sconfiggere l’Asse in Africa, tuttavia non furono questi gli eventi che resero il Congo così rilevante nel corso della guerra: il Congo contribuì infatti alla vittoria alleata con le sue grandi risorse – ed ecco perché era così importante averne e mantenerne il possesso.

Seppur dopo qualche esitazione e qualche opposizione da parte di quei coloni belgi che avrebbero preferito la neutralità, nel gennaio 1941 il governo belga in esilio mise infatti a disposizione dell’Inghilterra anche le immense risorse minerarie del Congo: gli inglesi acquistarono così tutto il rame delle miniere di Katanga (per un totale di 800mila tonnellate!), ma il Congo produceva anche i 2/3 di tutti i diamanti del mondo, era anche il più grande produttore mondiale di radio e di cobalto, notevole era la quantità di tungsteno e di stagno estratta dalle sue miniere e tuttavia fu l’uranio la risorsa del Congo più decisiva ai fini bellici.

Fino alla seconda guerra mondiale l’uranio era stato poco utilizzato e poche erano le sue miniere al mondo: una era quella di Shinkolobwe in Katanga (un’ ‘aberrazione della natura’ dove il minerale estratto era per il 65% uranio!) ma le scorte in Belgio del suo unico cliente, la Societé Minière di Bruxelles, furono sequestrate dai tedeschi quando il Belgio stesso venne occupato.

Tuttavia non erano queste le uniche scorte dell’uranio di Shinkolobwe: la miniera era stata chiusa fin dal 1939 ma il suo dirigente Edgar Sengier aveva acquistato tutto l’uranio fino a quel momento portato in superficie (circa 1.250 tonnellate) e che rimasto in Congo, l’aveva spedito prima per ferrovia fino al porto di Lobiro (nell'Angola portoghese) e poi su un cargo fino a New York, dove l’aveva conservato in un magazzino nella Staten Island.

Evidentemente Sengier aveva intuito l’importanza di una simile risorsa e si era preparato: fu così che quando il generale statunitense Nichols, incaricato dal generale Groves (responsabile del progetto ‘Manhattan’) di trovare uranio, si rivolse anche a lui si sentì rispondere che a New York ce n’erano già oltre 1.200 tonnellate!

E questo fu solo l’inizio: l’esercito statunitense spedì in Congo un suo Corpo Ingegneri che riaprì la miniera di Shikolobwe, allargò gli aeroporti di Léopoldville e di Elizabethville e costruì il porto fluviale di Matadi sul Congo – tutto allo scopo di estrarre e di far arrivare negli U.S.A. il preziosissimo uranio.

Questo incontro fra statunitensi e belgi in Congo rivelò anche quanta distanza c’era fra le due mentalità, come per esempio quando alla fine del 1942 gli Stati Uniti impiegarono una compagnia di camionisti negri dell’esercito presso il porto di Matadi ed i belgi si lamentarono perchè questi negri non mostravano la dovuta deferenza verso i bianchi.

Dal 1942 al 1944 vennero comunque estratte 30mila tonnellate di uranio con cui furono poi costruite anche le bombe atomiche sganciate su Hiroshima e Nagasaki.

L’urgenza e la necessità di avere uranio è testimoniata anche dal fatto che per soddisfare le esigenze dell’industria bellica degli Alleati le autorità belghe dovettero aumentare in misura crescente l’estrazione del minerale imponendo così ai minatori (congolesi) carichi di lavoro sempre più pesanti: nel novembre 1941 ciò provocò scioperi che le autorità soffocarono con la forza che a sua volta generò un’esplosione di esasperazione che costrinse le autorità a schierare l’esercito coloniale per ristabilire l’ordine (almeno 70 persone vennero uccise); nel 1944 ci furono altri scioperi generali, rivolte in Katanga e Kasai ed una anche tra i soldati africani, ma le autorità raddoppiarono ugualmente i giorni del lavoro forzato annuale portandoli da 60 a 120.

Proviamo a riassumere: durante la seconda guerra mondiale il Congo Belga fu saccheggiato ancor più intensamente di prima; ancora una volta la sua popolazione fu trascinata a combattere una guerra di cui non capiva il senso e per la quale non aveva, né poteva avere, nessun interesse; chi non andò a combattere fu sottoposto al lavoro forzato e a tutte le orribili punizioni che questo comportava.

La conclusione di tutto ciò è semplice: le politiche di occupazione naziste adottate in Europa non erano dissimili da quelle belghe in Congo, ma sono solo le prime ad essere continuamente ricordate ed a suscitare un così diffuso sentimento di orrore. Queste pratiche sono sentite insomma in tutta la loro mostruosità solo se e quando vengono inflitte ai bianchi.

 

L’indipendenza

 

Le popolazioni delle colonie francesi dell’A.E.F. (Congo Francese compreso) erano state praticamente risparmiate dalla guerra ed inoltre si erano venute a trovare in una condizione di indipendenza di fatto dalla madrepatria europea occupata dalla Germania: se a tutto ciò si aggiunge infine che, ancor più che dopo la prima guerra mondiale, le stremate nazioni europee erano sempre meno in grado di tenere sotto controllo i loro inquieti imperi d’oltremare, si capisce come inevitabilmente anche il Congo Francese seguì le tappe della progressiva dissoluzione della politica coloniale tracciate a Parigi.

Dapprima anche il Congo Francese entrò infatti a far parte dell’Unione Francese, l’entità politica creata colla costituzione francese del 27 ottobre 1946 (quella che fondò la Quarta Repubblica) che a proposito dei possedimenti extraeuropei nel suo preambolo affermava solennemente che

La Francia forma, con i popoli d’oltre-mare, un’Unione fondata sull’eguaglianza dei diritti e dei doveri, senza distinzione di razza o di religione.

L’Unione Francese è composta di nazioni e di popoli che mettono in comune o coordinano le risorse e gli sforzi per sviluppare le rispettive civiltà, accrescere il loro benessere e assicurare la loro sicurezza.

Fedele alla sua missione tradizionale, la Francia intende condurre i popoli di cui ha assunto la cura alla libertà di amministrarsi da soli e di gestire democraticamente i propri affari; scartando ogni sistema di colonizzazione fondato sull’arbitrio, garantisce a tutti l’eguale accesso alle funzioni pubbliche e l’esercizio individuale e collettivo dei diritti e delle libertà che vengono proclamati o confermati qui di seguito.”

Modellata sul Commonwealth britannico, l’Unione Francese univa tutti i possedimenti extraeuropei della Francia che in varie forme e livelli (dipartimenti, protettorati assegnati dall’O.N.U., colonie vere e proprie e stati associati) voleva mantenere uniti alla Francia stessa e dipendenti in vari modi da essa.

Nell’Assemblea di Parigi sedevano anche rappresentanti delle terre d’oltremare, ma in realtà l’Unione Francese era un sistema escogitato per ristrutturare, e soprattutto ammodernare, l’antico sistema coloniale che intendeva salvare e mantenere alla Francia.

Dopo il trauma della sconfitta nella guerra in Indocina 1954 – plateale smentita dei magniloquenti proclami dell’Unione Francese - la Legge Quadro del 1956 cercò di rimettere ordine nell’insieme dei possedimenti aumentando diritti (come il suffragio universale) dei suoi abitanti.

Nel 1958 la nuova costituzione della Quinta Repubblica istituì la Comunità Francese, entità politica e di cooperazione economica che rimpiazzò l’Unione Francese ed all’interno della quale i vari paesi ottennero l’autonomia amministrativa - mentre la Francia continuava a controllarne moneta, difesa, affari esteri e sicurezza, cioè ad esercitare i poteri fondamentali.

Per frenare la disgregazione inarrestabile degli imperi coloniali, troppo pesanti per essere ancora gestiti con la sopraffazione di un tempo, anche questo passaggio era un tentativo di tenere insieme le varie ex-colonie cercando però di far leva sempre più sul convincimento, sulla convenienza reciproca e sull’adesione volontaria anziché sulla violenza e sulla forza.

Dopo l’Indocina fu però ora la guerra d’Algeria (1954-62) a mostrare quanto diversa dagli astratti ed ipocriti proponimenti fosse la realtà, tuttavia è indubbio che nell'Africa nera francese la fine del colonialismo si sviluppò in forma molto meno traumatica e violenta che altrove (come, appunto, in Indocina ed in Algeria): fin dall’inizio il nuovo presidente Charles De Gaulle aveva specificato che tutte le nazioni che facevano parte della Comunità Francese avrebbero potuto scegliere l'indipendenza e ad eccezione della Guinea, che optò immediatamente per l’indipendenza, il 28 novembre 1958 tutti i territori francesi dell’Africa subsahariana scelsero con un referendum di aderire ad una nuova Comunità Franco-Africana; nel 1959 venne poi fondata l’Unione delle Repubbliche Centrafricane, unione federale ad interim che infine si sciolse nel 1960 con la nascita delle quattro nazioni (Gabon, Repubblica del Congo, Repubblica Centrafricana e Ciad).

Finalmente il 15 agosto 1960 il Congo-Brazzaville conseguì la piena indipendenza col nome di Repubblica del Congo.

 

Come si è visto, già durante gli anni della seconda guerra mondiale la popolazione indigena del Congo Belga si era ribellata con rivolte rurali, scioperi, sommosse urbane e perfino un ammutinamento - tutti indicatori che i ritmi bestiali di sfruttamento non erano più sopportabili e che nel paese stava ormai maturando una nuova coscienza delle proprie identità, condizione, aspirazioni e dei propri diritti.

Subito al di là del fiume poi la relativa indipendenza di fatto dell’A.E.F. (Congo Francese compreso) furono contagiosi: il Congo Belga cominciò così a sentire come possibile la fine del pesantissimo giogo coloniale che un Belgio spossato dalla guerra era oltretutto sempre meno in grado di imporre - e le istanze nazionaliste si diffusero accendendo nuove speranze.

Già da alcuni decenni il Belgio aveva tentato di contenere i crescenti movimenti indipendentistici mediante la concessione di riforme (in particolare nel settore agricolo e dell’educazione) che avevano mirato all’emancipazione di una fascia ristretta della popolazione nella speranza che questa sorta di nuova élite nera (i cosiddetti evolués, gli "evoluti"), fortemente permeata di cultura occidentale e detentrice di alcuni limitati diritti politici, si sarebbe schierata con l'autorità belga e avrebbe collaborato con essa per il mantenimento della colonia: naturalmente questi ‘evoluti’ al massimo potevano aspirare a raggiungere a fine carriera i livelli da cui iniziavano i bianchi (con stipendi doppi a parità di funzione).

Fu questo un tentativo davvero maldestro, necessario e controproducente: maldestro perché avvicinando la posizione dei negri più capaci a quella dei bianchi faceva sentire ancora più ai primi l’insopportabile ed ingiustificato privilegio dei secondi; necessario perché una qualche forma di collaborazione interrazziale era ineludibile per lo svolgimento amministrativo della colonia stessa; e controproducente perché educando seppur in modo parziale ai valori occidentali alcuni negri, con ciò stesso si metteva nelle loro mani l’arma della cultura con cui avrebbero combattuto (un esempio per tutti: alla conferenza panafricane di Accra nel dicembre 1958 Lumumba avrebbe affermato che: ’ La nostra azione è basata sulla Dichiarazione Universale dei diritti dell’uomo…’).

Nel 1955, di fronte alla crescita delle associazioni e dei movimenti e delle relative rivendicazioni indipendentiste, re Baldovino I cercò di salvare il salvabile proponendo la formazione di una Comunità belga-congolese: l’8 dicembre 1957 la popolazione negra partecipò così per la prima volta all’elezione dei consigli cittadini ed i suoi rappresentanti ottennero ovviamente la maggioranza dei seggi.

Prendendo sempre più sicurezza e coscienza della propria forza, la popolazione negra continuò la lotta per l’indipendenza e, dopo gli (ennesimi) scontri, nel 1959 a Léopoldville il governo belga, impossibilitato a resistere e temendo oltretutto una guerra d’indipendenza come quella che ancora infiammava l’Algeria, fu costretto a capitolare.

Alla Conferenza di Bruxelles (20 gennaio - 20 febbraio 1960) funzionari belgi e rappresentanti congolesi si incontrarono così per concordare le modalità e la tempistica della concessione dell’indipendenza.

E’ singolare che proprio nel decennio precedente all’indipendenza il numero di belgi in Congo era massicciamente aumentato: nel 1950 i belgi erano infatti 39.006 (come si è visto, nel 1939 erano stati 17.356), nel 1955 69.813 e nel 1959 88.913.

Questo aumento ha diverse chiavi di lettura che vanno dalle necessità dell’incremento della produzione coloniale a quella di controllare la popolazione indigena.

Comunque, se tutti i neri erano stati uniti nella lotta contro il Belgio, ora però sorse il (nuovo) problema di quale forma dare al nuovo stato che contava numerose e forti differenze (ed ostilità) etniche e regionali (di cui i colonialisti non avevano mai tenuto conto): su questo punto cruciale tra i leader politici congolesi non vi era identità di vedute perchè il Movimento Nazionale Congolese di Patrice Lumumba (uno degli instancabili protagonisti della lotta per l’indipendenza) sosteneva la costituzione di uno stato unitario (“Congo unito in un’Africa unita” era il suo slogan per ‘Unire tutti i congolesi, senza distinzione di tribù, di razza, di sesso, di classe …’) mentre l’Abako (l’Associazione dei Bakongo) e il Conakat (la Confederazione delle associazioni katanghesi) erano invece a favore di una confederazione delle varie tribù.

La Costituzione del 1960 sancì così una soluzione compromesso perchè previde uno Stato unitario, articolato però in province dotate di ampia autonomia.

Alle elezioni del maggio 1960 il Movimento Nazionale Congolese ottenne la maggioranza relativa: la Repubblica Indipendente del Congo (o Congo-Lèopoldville) fu così proclamata il 30 giugno del 1960 col leader dell’Abako, Joseph Kasavubu, come Presidente e Lumumba come Primo Ministro - un compromesso era stato evidentemente raggiunto anche nell’attribuzione delle massime cariche.

 

La Repubblica del Congo

 

Molto raramente la nascita di stati da ex-colonie è stata felice e pacifica: quelle genti e quei territori uscivano violentati e sconvolti dall’irruzione di una civiltà molto più forte della loro che ne aveva stravolto la naturale evoluzione; i confini dei nuovi Paesi erano quelli tracciati sulla carta geografica (come a Berlino) senza nessun riguardo (e nemmeno conoscenza) di coloro che vi abitavano; la loro economia infine era quella imposta con la forza e la violenza dagli interessi degli europei dominatori.

Lo stravolgimento era stato tale che non era più possibile tornare indietro e ricominciare riallacciandosi al proprio passato, quando si era potuto vivere secondo la propria civiltà ed i propri equilibri e costruirsi liberamente il proprio destino; come se non bastasse, i nuovi governanti indigeni erano poi degli occidentalizzati che si muovevano in un ambiente del tutto diverso ed estraneo alla loro stessa formazione culturale.

 

Nella nuovissima Repubblica del Congo (o Congo-Brazzaville), ora non più sotto il controllo francese, subito intensi disordini etnici e politici sconvolsero il mandato del primo presidente, l’ex-prete cattolico Fulbert Youlou, che nell'agosto 1963 fu deposto dai militari.

Altra costante dei paesi ex-colonie (soprattutto in Africa), i militari vi giocarono sempre un ruolo decisivo (e quasi sempre confuso): essi avevano infatti (e spesso erano i soli) una qualche organizzazione e disciplina, la forza delle armi e l’abitudine alla violenza.

I militari reatarono al governo per un breve periodo, ma la disastrosa situazione economica e sociale (altra costante dei nuovi paesi ex-colonie) ereditata dalla Francia ed il turbolento contesto politico regionale – segnato dalla guerra nella vicina Repubblica Indipendente del Congo – accentuarono l’instabilità politica del paese, che si avvicinò addirittura alla Cina comunista.

Nemmeno il richiamo del comunismo costituì una novità: il modello comunista infatti prometteva una gestione centralizzata ed unitaria della società in un momento di grande instabilità, sembrava poter organizzare meglio la modernizzazione dei paesi e garantiva inoltre l’appoggio e l’aiuto delle potenze comuniste contro la presenza e le pretese degli ex-oppressori coloniali.

Mentre nel mondo intero infuriava la ‘guerra fredda’ per l’U.R.S.S. fu fin troppo facile entrare nel gioco del vasto e caotico mondo post-coloniale - ed in quell’incredibile e complicatissimo intrico di manovre, lotte, scontri e colpi di ogni genere la Repubblica del Congo non fece eccezione.

Sotto i nuovi (e mutevoli) dirigenti il 10 gennaio 1966 fu così fondato il Mouvement National de la Révolution (M.N.R.) che si proponeva di divenire sia partito unico che anche principale organo dello stato; il 23 giugno 1966 l’esercito venne rinominato ‘Esercito Popolare’; ed infine il 31 dicembre 1968 il paese divenne una ‘Repubblica Popolare’ (con le solite organizzazioni di massa sul modello sovietico e cinese) sostenuta dall’Unione Sovietica.

La svolta avvenne però nel 1979 quando dopo un periodo di torbidi al vertice del partito unico, ribattezzato Partito Congolese del Lavoro (P.C.T.), e quindi dello stato, il potere fu assunto dall’uomo forte, il generale Denis Sassou-Nguesso, che promosse una politica ancor più nettamente marxista (cioè dittatoriale), centralizzatrice dell’economia e chiaramente soggetta all’Unione Sovietica con cui nel 1981 firmò un trattato di amicizia e di cooperazione.

Sassou-Nguesso fu rieletto nel 1984 e nel 1989, ma la situazione economica e sociale del paese si deteriorò ulteriormente e si sviluppò così una forte opposizione al suo regime.

Il collasso dell'Unione Sovietica (e la conseguente cessazione della guerra fredda) portò scompiglio in tutti quegli stati che erano dipesi ed erano stati finanziati da Mosca: se in Europa una nuova classe politica spesso riuscì ad emergere, in Asia ed in Africa furono invece gli stessi governanti comunisti di prima che pur di continuare a rimanere ai posti di comando non esitarono a gestire da protagonisti anche il cambiamento dell’intero sistema politico, quello stesso con cui fino a quel momento erano stati al potere.

Fu questo uno dei tanti casi in cui tutto cambiò perché tutto (il potere) restasse come (cioè nelle mani di) prima.

La Repubblica del Congo non fece eccezione e Sassou-Nguesso si diede subito a riformarne la struttura politica secondo le nuove esigenze: fu così che nel marzo 1991 egli fece promulgare una nuova costituzione che introdusse il multipartitismo e ripristinò il nome precedente ‘Repubblica del Congo’.

Sassou-Nguesso cominciò anche a modificare la politica economica ed estera in senso filo-capitalistico, aprendo il paese agli investimenti delle potenze occidentali (ed alleandosi ora con esse).

Nelle elezioni presidenziali dell’agosto 1992 Sassou-Nguesso fu però sconfitto da Pascal Lissouba ed anche il Partito Congolese del Lavoro, che aveva dominato la scena politica fino a quel momento, perse il potere.

Lissouba venne tuttavia contrastato da una forte opposizione: nel biennio 1993-94 il paese fu scosso da un violento conflitto e Brazzaville per alcuni mesi divenne il teatro di un confuso scontro armato.

Lo scontro armato fra le fazioni (che aveva ben poco della lotta politica in senso occidentale) riprese nel 1997 in occasione delle elezioni presidenziali e dopo quattro mesi di ulteriori scontri sanguinosi, che devastarono ancora una volta Brazzaville e coinvolsero pesantemente la popolazione civile soprattutto nel sud del paese, anche grazie all'appoggio dell'esercito angolano fu l’esperto generale Sassou-Nguesso a vincere ancora una volta e in ottobre tornò a ricoprire la massima carica dello stato.

Quella di Sassou-Nguesso fu una vittoria definitiva e con la pace egli poté ristabilire sicure relazioni internazionali, ottenendo di conseguenza anche la ripresa dei finanziamenti esteri: i negoziati con il Fondo Monetario Internazionale e con la Banca Mondiale nel maggio 2002 portarono alla definizione di un nuovo programma di aggiustamento strutturale del paese, volto a ricostruirne de a stabilizzarne l’economia.

Questa seconda fase del lungo governo di Sassou-Nguesso fu caratterizzata anche da una ristrutturazione totale delle vecchie istituzioni partitiche e statali: a tutt’oggi il sistema è comunque rimasto fortemente autoritario ed ha abbandonato i riferimenti all’ideologia marxista solo per passare ad un certo culto della personalità del presidente.

Il P.C.T. è rimasto un pilastro del potere, ma anche lui è stato depurato dalla vecchia (ed inutile) ideologia marxista.

Nel marzo 2002 alle elezioni presidenziali Sassou-Nguesso fu confermato con circa il 90% dei suffragi e nelle elezioni legislative di maggio-giugno il Partito Congolese del Lavoro si aggiudicò la maggioranza dei seggi dell’Assemblea, ma entrambe le elezioni registrarono l’assenza dei due principali leader dell’opposizione (Pascal Lissouba e Bernard Kolelas), vennero così boicottate da una cospicua parte delle opposizioni e fecero divampare nuovi scontri che durarono fino al marzo 2003.

Tra i motivi del conflitto giocò un ruolo importante il controllo del traffico illegale dei diamanti - che nel 2004 costò alla Repubblica del Congo l’espulsione dal Kimberley Process (l’accordo di certificazione volto a garantire che i profitti ricavati dal commercio di diamanti non vengano usati per finanziare guerre civili).

In ogni caso, alle elezioni legislative del giugno-agosto 2007 si è nuovamente affermato il Partito Congolese del Lavoro di Sassou-Nguesso.

La politica estera della Repubblica del Congo è oggi nettamente allineata con la Francia (con cui condivide la lingua) e cogli stati afro-portoghesi.

Tutto si tiene: i vecchi legami coloniali hanno ceduto il passo a rapporti più equilibrati e la Francia può ben vantarsi di aver saputo salvare i suoi interessi, ora difesi in altri (e ben più accettabili) modi.

 

Il Congo-Lèopoldville

 

Ben più drammatiche furono le vicende che il Congo-Lèopoldville dovette attraversare - ed anche in questo caso tutti gli ingredienti della prima fase post-coloniale entrarono in gioco.

Innanzitutto il paese fu lasciato in balia di se stesso: la transizione dal colonialismo all’indipendenza fu per tutti i paesi che la vissero un evento carico di gravi e gravissimi problemi, peggiorati dal fatto fondamentale che la società non era pronta a gestirsi nella nuova situazione in cui il dominio coloniale l’aveva gettata ed avrebbe avuto bisogno di un lungo periodo di pacifico assestamento.

Nulla di ciò avvenne nell’ex-Congo Belga dove fin dalla proclamazione dell’indipendenza subito si verificarono ammutinamenti, episodi di violenza di ogni tipo, saccheggi e devastazioni oltre a (i soliti, verrebbe da dire) durissimi scontri etnici e politici (il paese era abitato da quattrocento tribù spesso i lotta fra loro) mentre anche l'esercito, al cui comando inizialmente erano rimasti ufficiali belgi, precipitò nel caos degli ammutinamenti, delle rivolte e delle sommosse tanto che buona parte degli alti gradi (ovviamente bianchi) dovette ritirarsi svuotandone così l’impalcatura e lasciandolo sempre più in mano a caporioni locali.

Analogamente si assistette all’esodo di tanti bianchi ed alla fuga di capitali dal paese.

Un altro gravissimo problema era che gli ex-colonialisti non si erano certo rassegnati a non veder più garantiti i loro interessi: tutto al contrario, essi volevano che continuassero ad essere soddisfatti (seppur in altro modo).

Fu quel periodo e quella politica che vennero chiamati ‘neo-colonialismo’, cioè l’attivo intervento nei paesi appena liberati delle potenze ex-dominatrici allo scopo di mantenervi i privilegi ed i guadagni delle proprie imprese: ancora una volta insomma tutto doveva cambiare perché molto rimanesse come prima.

Far leva sulle rivalità tribali e fra i vari gruppi indigeni fu un’arma privilegiata nelle mani dei neocolonialisti - ed il caso del Katanga fu esemplare di questa politica.

Il Katanga, la parte meridionale del paese con capitale Elizabethville e ricchissima soprattutto di diamanti, possedeva risorse fin troppo appetibili perché il loro sfruttamento potesse essere lasciato davvero nelle mani dei congolesi: i neocolonialisti ricorsero così ad una manovra tanto tipica da poter essere considerata da manuale - e gli eventi procedettero con un ritmo febbrile.

L’11 luglio 1960 Moïse Ciombè, il leader del Conakat, con l’aperto sostegno della belga Union Minière, di truppe mercenarie e di parà belgi appena sbarcati provenienti dalla madrepatria, proclamò la secessione del Katanga dal Congo e chiese l’aiuto militare del Belgio perché lo difendesse contro i congolesi stessi: subito il governo di Bruxelles procedette all’invio di ulteriori nuove truppe con il pretesto di tutelare la sicurezza dei cittadini belgi rimasti ancora nel paese.

Il primo ministro Lumumba si appellò all’O.N.U. ed il Consiglio di Sicurezza autorizzò il segretario generale Dag Hammarskjöld a chiedere il ritiro delle truppe belghe (che avevano praticamente invaso il paese) e ad inviare una forza militare di interposizione.

Questo ovvio e scontato tentativo dei belgi di conservare la tutela politica e soprattutto economica sul giovanissimo stato africano (grazie anche alla complicità del fantoccio di turno) non solo provocò il dilagare di una cruentissima guerra civile, ma si allargò e si complicò nel contesto internazionale della ‘guerra fredda’: inevitabilmente la questione si inserì infatti nel gioco di quella onnipresente contrapposizione internazionale planetaria.

Era giocoforza rivolgersi ai nemici dei propri nemici, così Lumumba (che non era comunista né marxista) dopo essersi rivolto inutilmente agli U.S.A. chiese aiuto anche all’U.R.S.S. che subito glielo garantì, ma ovviamente l’arrivo in Congo di tecnici e di consiglieri sovietici acuì (se possibile) le tensioni (interne ed internazionali) e ne creò di nuove.

Per niente soddisfatto di questi sviluppi, il 5 settembre 1960 il presidente Kasavubu (che sosteneva Ciombè) destituì Lumumba (cui la C.I.A. aveva dato il nome in codice ‘Stinky’, puzzolente) con una sorta di colpo di stato e, dato il caos ormai ingestibile in cui il paese era precipitato (la guerra civile imperversava fra le tribù che si sterminavano a vicenda con raccapriccianti rituali atavici), il 13 dello stesso mese le forze dell’O.N.U. (giunte il 17 luglio) dovettero ritirarsi.

Il 14 settembre fu così l’esercito congolese, guidato dall’uomo forte, il colonnello Joseph-Désiré Mobutu, ad assumere il controllo del paese ormai altrimenti ingovernabile.

Il 29 settembre Kasavubu affidò provvisoriamente il governo a Mobutu stesso il quale, chiuse le ambasciate di U.R.S.S. e Cecoslovacchia ed espulsi i sovietici, il 10 ottobre imprigionò lo stesso Lumumba: Lumumba riuscì a fuggire, ma, nuovamente catturato, fu torturato orribilmente per giorni e giorni ed infine assassinato assieme a due suoi stretti collaboratori il 17 gennaio 1961 nella villa di un belga ed in circostanze mai del tutto chiarite (non ci riuscirà nemmeno una commissione d’inchiesta dell’O.N.U.): il suo cadavere venne poi fatto a pezzi, la testa spedita come trofeo ai mandanti dell’omicidio ed il cuore e il fegato mangiati ancora caldi dagli aguzzini.

Fatto il lavoro sporco, in febbraio Kasavubu sostituì Mobutu e formò un governo di unità nazionale.

Era evidente che da tempo era stata stretta un’alleanza fra Belgio, Kasavubu, Ciombè (e, come risulterà in seguito, colla C.I.A.) e che la sconfitta del progetto democratico, patriottico ed avanzato socialmente di Lumumba si frantumava anche a causa dell’estraneità della società congolese rispetto ad esso; è triste notare come tanti capi locali ed alte cariche non esitarono a favorire gli interessi degli antichi dominatori in vista dei loro supposti e limitati utili contingenti: la straziante morte di Lumumba (a 36 anni!) colpì molto l’opinione pubblica europea del tempo – ed a ragione perché esprimeva precisamente la gravità della tragedia.

 

Intanto, per scongiurare l’estendersi della guerra civile e per far rispettare la risoluzione con cui aveva riconosciuto il governo unitario congolese, il 21 febbraio 1961 il Consiglio di Sicurezza dell’O.N.U. inviò in Congo nuove truppe di cui autorizzò anche ‘il ricorso alla forza’ in Katanga se il personale militare e paramilitare straniero (cioè belga) non fosse stato ritirato ed espulso - ma per il momento non successe ancora nulla.

Tuttavia in seguito alla nascita di un governo di unità nazionale capeggiato da Adula e riconosciuto dall’O.N.U. (il 22 agosto 1961) e di fronte al reiterato rifiuto di Ciombè e dei suoi sostenitori bianchi di rinunciare alla secessione, le truppe dell’O.N.U. entrarono finalmente in azione e catturarono quattrocento mercenari, ma ciò scatenò una nuova guerra, quella fra le truppe katanghesi rinforzate da mercenari e comandate da ufficiali belgi e, appunto, i Caschi Blu.

Di fronte a questa ennesima complicazione il segretario generale dell’O.N.U. Hammarskjöld chiese ed ottenne di incontrare Ciombè, ma l’aereo su cui si stava recando all’appuntamento la notte del 17 settembre 1961 esplose in volo in un ancora inspiegato incidente aereo (con ogni probabilità si trattò di un attentato) senza sopravvissuti.

Nel dicembre 1962 le forze dell’O.N.U. si mossero davvero sul serio in Katanga, dove conquistarono Elisabethville, e Ciombè dovette arrendersi nel gennaio 1963 in cambio dell’amnistia per sé e per le sue milizie.

Tuttavia i problemi non erano ancora finiti perché spinte secessionistiche continuavano a manifestarsi in altre regioni ed altri conflitti continuavano a funestare il paese mentre la ribellione degli eredi di Lumumba proseguiva nell’est del paese: col nome di ‘Simba’ (‘leoni’ in Swahili) questi guerriglieri furono raggiunti per un breve periodo anche da 200 cubani guidati da Che Guevara (che però ben presto se ne andò dichiarando che ad essi mancava la volontà di combattere): guidati da Pierre Mulele e da Gaston Soumaliot (capi lumumbisti) nell’agosto del 1964 essi presero addirittura Stanleyville da dove però alla fine di novembre vennero sgomberati da paracadutisti belgi fatti arrivare in tutta fretta (la resistenza “mulelista” si sarebbe comunque riaccesa più volte fino al 1968 ed anche negli anni seguenti gruppi di guerriglieri sarebbero rimasti attivi ai confini della Tanzania).

Nel giugno 1964 il capo di governo Adoula fu costretto a dimettersi e per risolvere una volta per tutte il problema il presidente Kasavubu adottò misure decise: fece varare una nuova Costituzione - presidenziale e federalista - ed a garanzia del rispetto delle autonomie federali affidò la guida del nuovo governo addirittura allo stesso Ciombè (!).

Ma neanche questa volta il Congo riuscì a trovare pace ed equilibrio: tra Ciombè e Kasavubu infatti si aprì ora un’aspra lotta per la leadership politica che portò ad una (ennesima) sostanziale paralisi del paese.

Il presidente degli U.S.A. Johnson - in concomitanza con l'escalation della guerra in Vietnam – si preoccupò per gli inestinguibili disordini in Congo che, oltre a poter scatenare una nuova crisi internazionale, avrebbero potuto nuovamente aprire le porte all’infiltrazione sovietica: la soluzione individuata fu così quella di sostenere Mobutu che il 25 novembre 1965 rovesciò Kasavubu, si attribuì tutti i poteri e proclamò la seconda repubblica.

 

La lezione era stata tristissima: il Congo non era stato in grado di seguire la guida pura ed illuminata di Lumumba, né di organizzarsi in modo unitario – e come avrebbe potuto date le condizioni in cui versava?

L’ingerenza neocoloniale era stata aperta e devastante, ma aveva trovato sostenitori ed appoggi fra i congolesi stessi; la ‘guerra fredda’ era divampata anche in Congo e nessun governo vi sarebbe stato possibile senza l’appoggio degli U.S.A. o dell’U.R.S.S.: Lumumba forse sbagliò solo nella scelta dell’alleato (cosa che Mobutu non fece) tuttavia per un paese così arretrato ma così ricco di risorse era impossibile allora scegliere il campo occidentale e contemporaneamente pretendere di sbattere una volta per tutte i neocolonialisti fuori di casa propria.

Lo Zaire di Mobutu

 

 

 

Quando il 25 novembre 1965 salì al potere per la seconda volta (ma senza spargimento di sangue) il generale Mobutu affermò che ai ‘politici’ erano stati necessari cinque anni per ‘rovinare’ il paese, così ‘per cinque anni non ci sarebbe stata più attività politica da parte di partiti’: sostenendo di agire in ‘regime d’eccezione’ egli assunse poteri praticamente assoluti in uno stato che ora venne fortemente centralizzato.

 

Politico’ divenne sinonimo di ‘malefico’ o ‘corrotto’ ed il governo di Mobutu si atteggiò come apolitico o addirittura antipolitico: già nel 1966 vennero però creati i Corpi dei Volontari della Repubblica che, accesi sostenitori di Mobutu, lo proclamarono il ‘secondo eroe nazionale’ dopo Lumumba (!).

 

A prima vista questa pretesa sembra stupefacente: dopo averlo osteggiato e combattuto (per non dir altro) ora Mobutu si sforzava di presentarsi come il successore ed erede di Lumumba!

 

Eppure in tutto ciò c’era della logica: in nome di un ‘autentico nazionalismo congolese’ Mobutu era a favore un Congo unito e centralizzato - esattamente come lo era stato Lumumba; Mobutu cercava l’appoggio ed il sostegno di tutti coloro che, come i lumumbisti, avevano visto con estremo sfavore il dividersi del paese nelle terribili guerre civili – senza dimenticare che i seguaci di Lumumba erano ancora attivi e presenti sulla scena.

 

Secondo Mobutu Lumumba aveva certamente commesso errori, ma aveva incarnato l’orgoglio anticoloniale dei congolesi ed il suo martirio finale poi ne esaltava la figura di nobile combattente – senza dimenticare che egli era morto, quindi solo un mito, non certo un (anche solo potenziale) antagonista.

 

Mobutu aveva le idee chiare su cosa il suo paese doveva diventare e su come andava gestito: dopo cinque anni di sangue e devastanti guerre civili esso doveva ora trasformarsi in uno stato totalitario, guidato da una persona sola (lui stesso ovviamente) e fornito di una sua ideologia.

 

Nel 1967 venne fondato il Movimento Popolare della Rivoluzione (M.P.R.) al quale era obbligatorio iscriversi e che fino al 1990 sarebbe stato l’unico partito politico ammesso: la sua dottrina - cioè l’ideologia del nuovo stato - era esposta nel ‘Manifesto di N’Sele’ e si riassumeva nella triade nazionalismo-rivoluzione-autenticità.

 

La rivoluzione era ‘veramente nazionale ed essenzialmente pragmatica’ e ripudiava sia il capitalismo che il comunismo, modelli stranieri ed estranei al Congo - ed era questa l’autenticità cui faceva riferimento il Manifesto.

 

Nello stesso 1967 tutti i sindacati vennero dichiarati illegali (lo sarebbero stati fino al 1991) e forzosamente fusi nella Unione Nazionale dei Lavoratori Zairiani che – come sempre nei regimi totalitari – divenne strumento di sostegno del governo.

 

Come sempre all’inizio di un nuovo regime, anche Mobutu cercò (e spesso riuscì) di sottomettere o comunque inserire nel suo sistema gli oppositori, agendo contemporaneamente con mano inesorabile su chi continuava a resistere: era insomma il metodo della carota e del bastone – quest’ultimo in grado però di colpire in modo estremamente pesante.

 

Fin da subito Mobutu consolidò il suo potere con esecuzioni pubbliche dei suoi avversari politici, dei complottisti (o supposti tali) e di chi poteva minacciare il suo potere: già nel 1966 quattro membri del suo stesso governo furono arrestati con l’accusa di golpismo, processati, condannati e pubblicamente giustiziati davanti a 50mila persone.

 

Mobutu spiegò così queste esecuzioni: "Bisogna colpire dando esempi spettacolari e creare così le condizioni per una disciplina di regime. Quando un capo decide, decide. Punto e basta."

 

Sollevazioni di gendarmi del Katanga vennero schiacciate come anche una rivolta guidata da mercenari bianchi nel 1967; nel 1968 Pierre Mulele, uno dei leaders lumumbisti, fu convinto a ritornare dal suo esilio a Brazzaville con la promessa che sarebbe stato amnistiato, ma appena tornato fu arrestato, torturato (gli furono cavati gli occhi, strappati i genitali e i suoi arti amputati uno alla volta) e finalmente ucciso. Mobutu tuttavia in un secondo tempo preferì rinunciare alla tortura ed all’omicidio per adottare la tattica di cooptare, di corrompere e di inserire i suoi avversari nel suo sistema: il principio ora divenne ‘Tieni vicini i tuoi amici, ma ancora più vicini i tuoi nemici!’ ed una delle tattiche preferite fu quella di ruotare e cambiare spesso di incarico i membri del suo governo in modo che nessuno di loro potesse consolidare la sua posizione e costituire quindi una minaccia; un’altra tattica fu quella di arrestare ed anche torturare membri dissidenti del governo per poi – insegnatagli per bene la lezione - perdonarli e ricompensarli con alti incarichi.

 

Quello di Mobutu era un regime assoluto fondato sulla sua stessa persona così l’apparato repressivo si andò rafforzando in misura crescente anche con l’istituzione di corpi militari che avevano il solo compito di proteggerlo, ma comunque si voglia giudicare Mobutu ed i suoi metodi, nel 1970 nel paese non c’era più nessuna significativa opposizione e praticamente dappertutto regnavano (diciamo così) pace, legge ed ordine: fu questo il momento di massima legittimazione del potere di Mobutu ed alle elezioni di quello stesso anno fu presentata una sola lista (quella del suo partito) per il parlamento e ci fu un solo candidato (ovviamente lui stesso) per la carica di presidente.

 

 

 

Facendo seguito all’ideologia espressa fin dall’inizio del suo regime, ora Mobutu promosse una massiccia campagna di riappropriazione della coscienza e della cultura africane perché il paese ritrovasse le proprie radici culturali – obiettivo questo condiviso da tutte le élites che stavano liberando i loro paesi dal regime coloniale e che venne definito ‘decolonizzazione culturale’: dopo che la capitale Léopoldville (con 400mila abitanti la città più popolosa dell’Africa equatoriale) era stata rinominata Kinshasa (dal nome di un piccolo villaggio che si trovava nei suoi pressi), che ovviamente ora non era più costituita da due parti distinte, la città degli europei e quella africana (le ‘Quartier Indigène’ i cui residenti necessitavano di un permesso speciale per poter entrare nell’altra parte dopo le nove di sera), il 27 ottobre 1971 il paese ed il fiume presero il nome di (repubblica dello) Zaire (‘il fiume che inghiotte tutti i fiumi’), i nomi europei furono anch’essi cambiati in africani (i preti erano passibili di cinque anni di carcere se battezzavano bambini africani con nomi europei) ed anche l’abbigliamento europeo venne vietato in favore di una tunica di stile maoista chiamata abacost (abbreviazione di ‘à bas le costume’, ‘abbasso il vestito’): fu così che Mobutu volle essere chiamato Mobutu Sese Seko Nkuku Ngbendu Wa Za Banga ("l’onnipotente guerriero che con la sua tenacia e volontà di vincere passa di conquista in conquista lasciando fuoco sulla sua scia”), in breve Mobutu Sese Seko, ed anche il lago Alberto dal 1971 divenne il lago Mobutu Sese Seko..

 

Sull’onda del nazionalismo e dell’anticolonialismo in un primo tempo Mobutu nazionalizzò le industrie possedute dagli europei e spinse fuori del paese gli investitori stranieri, ma queste misure ben presto si rivelarono fallimentari: lo Zaire non aveva uomini ed esperienza, né tantomeno appoggi e contatti, per poter gestire da solo un’economia che il colonialismo aveva ormai indissolubilmente legato ai mercati mondiali e, oltretutto, Mobutu aveva spesso affidato le aziende nazionalizzate a parenti e persone fidate che si dettero subito a rapinare le compagnie stesse di cui erano responsabili.

 

In simili circostanze la crisi economica fu tanto grave quanto inevitabile e Mobutu fu così costretto a richiamare gli investitori stranieri.

 

 

 

Tuttavia il sistema più sicuro per avere sempre denaro fresco senza troppa fatica fu quello – seguito da tanti altri paesi ex-colonie! – di scegliere il campo occidentale nell’ambito della ‘guerra fredda’ e ricevere in cambio continui aiuti e prestiti praticamente a fondo perduto così dagli U.S.A. come da organizzazioni tipo il Fondo Monetario Internazionale.

 

Questa fu una pratica perversa e rovinosa (a questo proposito vedere il mio “Africa ventunesimo secolo”) per molti motivi: innanzitutto trasformava in clienti (e sbandierassero pure il loro nazionalismo!) gli stati coinvolti; in secondo luogo rendeva i dittatori inamovibili perché protetti dall’Occidente qualunque cosa facessero; ed infine, come mette in luce Dambisa Moyo, impediva alle economie nazionali di decollare perché soffocate e viziate dal flusso apparentemente inesauribile di denaro facile.

 

E non basta ancora! Qui abbiamo un dittatore che ha messo le mani sull’economia nazionale, che è ciecamente sostenuto dall’Occidente da cui dipende e che lo difende, che riceve enormi quantità di denaro che sa non dovrà mai restituire … può dunque stupire che la corruzione ed il ladrocinio arrivarono a livelli record?

 

Il regime di Mobutu rappresentò uno degli esempi più eclatanti di nepotismo e di vera e propria cleptocrazia: parenti e membri della sua tribù (Ngbandi) occuparono tutte le cariche più remunerative e dirigenziali sia nel governo che nell’esercito; la sua fortuna personale nel 1984 era già stimata in 5 miliardi di dollari - quasi tutta in banche svizzere e dunque nemmeno investita ed utilizzata nel paese (come sarebbe dovuto avvenire in base agli accordi stretti al momento di ricevere i finanziamenti esteri, cosa che nessuno si curava di verificare) – più o meno l’equivalente del debito estero dell’intero Zaire; possedeva un gran numero di Mercedes che lo trasportavano da uno dei suoi numerosi sontuosi palazzi all’altro, ma su strade scassate; gran parte del denaro veniva pompato nelle tasche di Mobutu ed in quelle dei suoi associati mentre le infrastrutture erano al collasso e molti lavoratori pubblici restavano anche mesi senza stipendio; Mobutu era capace di affittare un Concorde dall’Air France (a Gbadolite, il suo paese natale, aveva fatto costruire un aeroporto con una pista adatta ai decolli ed agli atterraggi proprio di un Concorde) per uso personale, come andare a fare shopping a Parigi, mentre nel paese erano in molti a patire la fame.

 

E non basta ancora: l’arrivo di tanto denaro dall’estero (per quanto in buona parte subito esportato) in un’economia stagnante inevitabilmente generò inflazione e quindi la riduzione di fatto dei magri ed irregolari salari che, unita all’esempio dello sperpero e delle ruberie che veniva dall’alto, moltiplicarono e diffusero la corruzione e la disonestà a tutti i livelli – ancora una volta seguendo un copione noto e frequente nell’ambito dei parassiti della ‘guerra fredda’.

 

Intanto, visto che non gli era riuscito di farsi proclamare presidente a vita, fu rieletto presidente (unico candidato) nel 1977 e nel 1984 ma, ben oltre ciò, nello Zaire venne imposto un vero e proprio culto della sua personalità: definito come ‘Padre della nazione’, ‘Salvatore del popolo’ e ‘Combattente supremo’, il telegiornale della sera era preceduto dell’immagine di lui che discendeva attraverso le nubi dal cielo sulla terra e ben presto sui media fu proibito fare qualsiasi altro nome che non fosse il suo: alle altre persone ci si doveva riferire solo menzionandone la carica o la posizione.

 

Mobutu credeva molto nella propaganda e faceva di tutto per ricevere testimonianze e riconoscimenti del suo prestigio internazionale - tutte cose che i suoi sostenitori stranieri si guardavano bene dal fargli mancare: Mobutu era sempre accolto con tutti gli onori all’estero ed esclusivamente a fini propagandistici e per sottolineare il riscatto dell’Africa organizzò a Kinshasa per il 30 ottobre 1974 "The Rumble in the Jungle", il famoso incontro di boxe fra Muhammad Alì e George Foreman,.

 

L’alleanza dello Zaire con l’Occidente si realizzò ovviamente anche in campo politico-militare: per esempio lo Zaire appoggiava le forze angolane che combattevano contro l’ M.P.L.A. e quando nel 1977 i ribelli katanghesi che stazionavano in Angola l’invasero (operazione Shaba I) subito la Francia accorse trasportando 1.500 paracadutisti marocchini che respinsero l’aggressione; l’anno seguente i ribelli katanghesi attaccarono con forze maggiori (operazione Shaba II) e questa volta Francia e Belgio (col supporto logistico statunitense) impiegarono truppe proprie e sconfissero un’altra volta i ribelli.

 

Finchè l’Occidente lo sosteneva con armi e denaro Mobutu poteva insomma dormire sonni tranquilli.

 

 

 

La crisi del regime di Mobutu

 

 

 

Sul piano internazionale Mobutu era stato fortemente appoggiato dagli U.S.A. e dai governi occidentali sia in funzione antisovietica sia come garanzia che la decolonizzazione non aveva conseguenze destabilizzanti – e cioè che lo sfruttamento delle risorse africane da parte delle multinazionali straniere poteva continuare: lo Zaire di Mobutu aveva saputo cogliere l’occasione, tanto da essere additato come esempio (di buona decolonizzazione) per tutta l'Africa.

 

Questa era una storia purtroppo diffusa in Africa dove spesso persone come Lumumba, così dignitose, ben intenzionate e con così grandi e nobili obiettivi, erano naufragate nel caos delle lotte tribali, delle manovre degli ex-colonialisti e delle difficoltà oggettive di gestire uno stato nato profondamente violentato e sconvolto: così il pugno di ferro di gente decisa (ma avida e senza scrupoli) alleata cogli ex-padroni (dalle idee fin troppo chiare) fu forse l’unico sbocco concretamente possibile date le forze in gioco e la situazione disperata.

 

Ma la sfrenata ed insensata brama di denaro, la mancanza di ogni senso delle proporzioni nel furto, la brutale repressione di ogni vera o supposta opposizione, questo irrazionale regime di rapina e di corruzione, l’insaziabile cleptocrazia di Mobutu (che aveva accumulato un patrimonio personale stimato tra i 5 ed i 9 miliardi di dollari, che amava ostentare questa ricchezza sulla scena internazionale acquistando tra l'altro yachts, auto di lusso e ville in Svizzera, Belgio, Francia e Italia) e dei suoi sodali, e la sistematica (ed interessata) acquiescenza dell’Occidente a tutto quel che veniva fatto nello Zaire purchè esso rimanesse consenziente alla politica antisovietica ed agli interessi delle compagnie europee, ebbene tutto ciò nel 1986 condusse lo Zaire ad una grave crisi economica.

 

Nel 1986 l’economia del paese finì in ginocchio nonostante che tra dal 1970 al 1989 lo Zaire avesse ricevuto continui e numerosi aiuti internazionali e nonostante i suoi immensi giacimenti di materie prime e le sue risorse: in uno dei paesi più dotati di possibilità del mondo le condizioni di vita della popolazione erano disperate, con un tasso di inflazione prossimo al 500% ed un livello di disoccupazione intorno al 45%.

 

Il fossato che si era venuto sempre più allargando tra la cerchia del dittatore ed il resto del paese diventò incolmabile al punto che neppure le violente forme di repressione messe in atto dalle autorità riuscirono a contenere il dilagare delle espressioni del malcontento popolare.

 

Eppure, nonostante tutto, forse sarebbe stato possibile risolvere anche questa crisi e la marea negativa avrebbe forse potuto mutar direzione una volta ancora, se non fosse venuta a maturazione una svolta profonda in tutta la politica mondiale: la celeberrima caduta del Muro di Berlino (il 9 novembre 1989) segnalò al mondo intero che la crisi dell’U.R.S.S. era divenuta irreversibile, che il suo impero si stava sfaldando e che l’Unione Sovietica stessa stava ormai crollando ed era avviata verso un’inarrestabile dissoluzione.

 

Era la fine dell’U.R.S.S. e del comunismo, ma anche della ‘guerra fredda’ e di tutti coloro che - come Mobutu - vi avevano costruito sopra le loro fortune politiche.

 

Col crollo dell’U.R.S.S. Mobutu (e tanti altri come lui) non serviva più e le opinioni pubbliche occidentali cominciarono a scoprire allora (solo allora) gli inaccettabili metodi del suo regime e la sua mancanza di rispetto dei diritti umani – e, tranne la Francia, tutte giudicarono allora (solo allora) insostenibile che l’Occidente continuasse a sostenere lo Zaire di Mobutu.

 

Consapevole della nuova situazione e sempre più disperato, Mobutu nell’aprile 1990 promise ormai all’Occidente tutto quello che quest’ultimo voleva e si rassegnò alle riforme e ad accettare il multipartitismo in parlamento: ma era ormai troppo tardi e questi tentativi non furono sufficienti a placare l'insofferenza popolare verso il regime, tanto che nel 1991 gli stessi militari, rimasti senza paga, cominciarono ad agitarsi.

 

La diffusa protesta sfociò ben presto in una rivolta.

 

Mentre Mobutu si rifugiava sullo yacht presidenziale ancorato al largo della capitale la rivolta fu sedata in un bagno di sangue dai suoi pretoriani che misero Kinshasa a ferro e fuoco, ma erano le inutili per quanto drammatiche convulsioni di un sistema moribondo.

 

L’opposizione montava comunque inesorabilmente contro di lui e, nonostante le riforme promesse, la risposta fu la solita dei dittatori - il terrore: arresti indiscriminati, violenze arbitrarie ed impunite, eliminazione degli oppositori, torture e quant’altro la mente degli aguzzini riuscì ad escogitare furono le misure adottate per cercare di arginare l’inevitabile crisi di un sistema tanto feroce quanto stupido.

 

Fu in questo contesto che ancora una volta la situazione internazionale – e cioè il dopo-genocidio dei tutsi in Rwanda - sembrò rimettere in gioco il vecchio dittatore.

 

 

 

I profughi del Rwanda nello Zaire

 

(vedere a questo proposito il mio “Genocidio in Rwanda”).

 

 

 

Di una popolazione totale di nemmeno 7 milioni di persone, in Rwanda dopo il genocidio dei tutsi ne erano rimaste 3.600mila, poco più della metà, mentre 300mila bambini vivevano spersi ed isolati senza i genitori e 700mila tutsi stavano tornando (con un milione di bovini) dall’estero dov’erano riparati ed occupavano le case e gli spazi vuoti che trovavano: dato che i morti tutsi nel genocidio erano stati circa 800mila, questi rimpatriati riequilibravano le perdite, ma non erano contadini e si concentrarono così nelle città dove accettavano qualsiasi lavoro per qualsiasi salario.

 

Lo spopolamento del Rwanda era dovuto soprattutto al fatto che in seguito all’invasione del paese da parte del R.P.F. (invasione che aveva posto termine al genocidio dei tutsi) masse di hutu erano fuggite nello Zaire, in Tanzania e perfino nel tormentato Burundi, sistemandosi in enormi campi subito a ridosso del confine col loro paese: lo Zaire in particolare aveva accolto la maggior parte dei profughi hutu con tutta la loro dirigenza, tutto il personale politico e di comando (arrivato con tutti i fondi della Banca Centrale), la quasi totalità dei poliziotti, giudici, maestri, dottori, infermiere: essi si erano sistemati in 35 campi, i 5 maggiori dei quali erano sorti tutt’intorno alla città di Goma ed ospitavano 850mila persone (compresi 30 o 40mila ex-combattenti del F.A.R. ed i miliziani degli ‘Interahamwe’, cioè i perpetratori hutu del genocidio); sempre nello Zaire, oltre a quelli intorno a Goma, avevano trovato poi posto altri 650mila rifugiati; in Tanzania i rifugiati rwandesi erano 570mila, in Burundi 270mila, 500mila vivevano nei campi allestiti dai francesi al tempo dell’operazione ‘Turquoise’, ed ulteriori 500mila ovunque erano riusciti a trovare riparo.

 

La vecchia leadership hutu responsabile del genocidio aveva gestito il massiccio trasferimento con ordine e disciplina, aveva mantenuto armi (pesanti e leggere), ufficiali e catena di comando, controllava i rifornimenti e si era insomma assicurata fin da subito la gestione – ferrea – dei campi stessi.

 

Per parte sua, la comunità internazionale aveva cercato di rimediare alla sua passata indifferenza (o peggio) durante il genocidio in Rwanda inondando ora i campi profughi di aiuti, ma, incredibilmente, questi aiuti fluivano copiosi nei campi fuori del Rwanda ma non nel Rwanda stesso! Si aiutavano cioè gli ex-perpetratori del genocidio, i suoi (grandi e piccoli) responsabili, continuando a trascurarne le vittime!

 

Per ignoranza e cecità (ad eccezione della Francia, sempre attivamente neocolonialista) le campagne mediatiche in Occidente avevano sensibilizzato infatti l’opinione pubblica; che a sua volta aveva premuto sui governi perché si ‘facesse qualcosa’; questo ‘qualcosa’ doveva andare ai profughi; ma i profughi che in quel momento si trovavano nei campi ora erano gli hutu, compresi gli uomini dell’ex- F.A.R. e gli ‘Interahamwe’, quelli cioè che avevano ancora le mani grondanti del sangue del genocidio!

 

E, come se tutto ciò non bastasse, questo ‘qualcosa’ spesso veniva venduto e commercializzato da chi lo riceveva gratis: ben presto infatti i campi erano divenuti delle vere e proprie città organizzate con molti servizi e strutture, con luoghi di ristoro e di svago, in cui (e da cui) le merci che arrivavano generosamente dalle organizzazioni internazionali spesso venivano esportate e scambiate.

 

Nessuno si era accorto (o aveva mostrato di accorgersi) poi della aperta (e fruttuosa) militarizzazione dei campi stessi.

 

Nei campi gli uomini dell’ex-F.A.R. e gli ‘Interahamwe’ si riarmavano alla luce del Sole sotto gli occhi (ben chiusi) della comunità internazionale: avevano i fondi necessari, i loro contatti coi fornitori di armi non si erano mai interrotti e, ove necessario, avevano i mezzi per ricorrere alla corruzione.

 

Per la comunità internazionale ora la parola d’ordine era divenuta ‘rimpatrio’ (come prima era stata ‘pace’) ed anche il nuovo governo rwandese voleva che i suoi cittadini abbandonassero i campi e facessero ritorno alle loro case – previo controllo delle loro responsabilità (o meno) nel genocidio: 140mila hutu avevano così tentato di tornare appena l’U.N.H.C.R. aveva dato loro il permesso, ma già all’inizio del 1995 tutto si era fermato a causa delle violenze e delle uccisioni che - da parte degli ex-F.A.R. e degli Interahamwe’! - attendevano quelli che uscivano dai campi stessi.

 

Si era verificato così che nei campi ora erano arrivati nuovi scampati al nuovo terrore mentre il R.P.A. (il movimento politico di cui il R.P.F. era il potente braccio armato) cercava in tutti i modi di svuotarli (anche bombardandoli, come nel caso di Kibeho nell’aprile 1995), soprattutto quelli dell’operazione ‘Turquoise’ che si trovavano all’interno del Rwanda.

 

Come se tutto ciò non bastasse, per gli ex-F.A.R. e per gli ‘Interahamwe’ la partita – ed il genocidio – non si era ancora conclusa: fin da subito (il 31 ottobre 1994) erano iniziate infatti le infiltrazioni armate dallo Zaire in Rwanda degli ex-genocidari che non solo volevano continuare il genocidio dei tutsi, ma colpivano anche gli hutu sostenitori del nuovo governo a Kigali.

 

 

 

Nel Rwanda del dopo-genocidio si viveva intanto comprensibilmente nell’incubo, nell’incertezza e nelle mille terribili difficoltà (che non è compito di queste pagine trattare ma che sono facilmente immaginabili): il 19 luglio 1994 era nato un governo di unità nazionale con Bizimungu, un hutu del R.P.F., presidente, un altro hutu, Twagiramungu, primo ministro, ed il tutsi generale Paul Kagame, comandante militare del R.P.F., ministro della difesa e ‘uomo forte’.

 

Gli uomini del R.P.F. che ora reggevano le sorti del Rwanda erano cresciuti in esilio, soprattutto in Uganda, dove avevano visto (e partecipato) sia alle terribili guerre civili in quel paese sia a quelle contro la Tanzania: essi si erano fatti uomini ed erano cresciuti nella violenza che giudicavano ‘normale’ e che potevano quindi praticare senza problemi.

 

La loro avanzata in Rwanda era stata costellata così di violenze e massacri (Gersony calcolò che fra aprile e metà settembre 1994 furono uccise dalle 25mila alle 45mila persone, tutsi inclusi!) e, una volta al potere, di arresti (dai 1.000 nell’agosto 1994 ai 23mila al marzo 1995, ai 44mila in giugno, ai 55mila in novembre, ai 70mila in febbraio 1996, agli 80mila in agosto, ai 100mila nel 1997) che, con un sistema giudiziario a pezzi, avvenivano semplicemente ‘puntando il dito’, mentre le condizioni di detenzione erano pessime.

 

Eppure questo era un sistema congeniale al R.P.F. che non si fidava di nessuno, rifiutava i tribunali internazionali e voleva invece mantenere il controllo della ‘giustizia’ sia per avere in pugno le leve del potere, sia per esercitare così una continua minaccia sugli hutu e sia inoltre perchè venisse giudicato solo il crimine di genocidio (e non le numerose uccisioni, le occupazioni e le requisizioni del periodo seguente di cui lui stesso era spesso responsabile).

 

Quei tutsi e quegli hutu tolleranti e liberali, o soltanto più umani e razionali, non poterono nulla: il puzzo dei cadaveri del genocidio ammorbava ancora l’aria (ed i cuori).

 

Ben presto il governo di unità nazionale si trovò costretto a subire la completa iniziativa dei tutsi del R.P.F. (soprattutto anglofoni, quelli cioè che erano giunti dall’Uganda) che addirittura marginalizzarono gli stessi tutsi francofoni e gestirono il paese sempre più con l’arbitrio della loro forza (finchè a fine agosto 1998 si sarebbero impadroniti completamente del governo e del potere).

 

Efficienti e disciplinati, essi si erano da tempo convinti che non avrebbero mai potuto contare sulla comunità internazionale (distratta o, nel caso della Francia, dalla parte degli hutu perpetratori del genocidio) ed avrebbero quindi dovuto far sempre tutto da soli.

 

 

 

La prima guerra del Congo: le cause

 

 

 

Come si è visto, il grosso dei rifugiati (hutu) del Rwanda aveva trovato rifugio nello Zaire e precisamente intorno a Goma, capoluogo della regione confinante di Kivu che, divisa in un nord ed un sud, era quattro volte più grande del Rwanda stesso. L’arrivo di masse così imponenti di profughi aveva alterato ogni equilibrio nella regione, già di per sé in condizioni precarie, e cittadinanza, risorse agricole, mene dei politici, sicurezza, ecc. erano state tutte occasioni di scontro: la tensione era cresciuta fino ai livelli di guardia ma, nondimeno, i profughi avevano trovato buona accoglienza.

 

Essi infatti si erano subito inseriti nel complicato contesto etnico della regione: gli hutu dello Zaire e quelli profughi dal Rwanda avevano solidarizzato e l’inesauribile scontro con le altre etnie interne dello Zaire era così ripreso (se possibile) con ancora maggior vivacità – naturalmente anche e soprattutto quello contro i tutsi.

 

Gli scontri etnici fra i numerosi gruppi armati rivali si erano moltiplicati con rinnovato vigore e la situazione era presto divenuta – al solito – confusa ed incandescente.

 

Per parte sua Mobutu aveva fatto un disperato tentativo di sfruttare la situazione a proprio vantaggio: l’arrivo di tanti profughi dal Rwanda l’aveva infatti potentemente rilanciato sull’arena internazionale come intermediario essenziale e gestore della politica degli aiuti ed egli poteva ora presentarsi al presidente francese Chirac ed a quello statunitense Clinton come leader ragionevole e disposto ad impegnarsi per un allentamento della tensione.

 

In realtà Mobutu stava invece mettendo a pnto un piano di ben altro intendimento.

 

Secondo questo piano gli hutu nello Zaire avrebbero dovuto essere sostenuti nel loro sforzo per crearsi una solida base territoriale nella regione di Kivu in funzione anti-tutsi fino a ricevere la cittadinanza zairese e sostenere quindi Mobutu anche col voto: non può stupire quindi che anche l’esercito zairese stesso stesse contribuendo a cacciare e ad espellere nella violenza e nella rapina i tutsi dal paese.

 

Mobutu inoltre aveva ora una potente arma di ricatto e di pressione nei confronti dell’Uganda (già amica dei tutsi ed ora sostenitrice del loro governo a Kigali) e dello stesso Rwanda: a causa della sua ostilità nei confronti dell’Uganda anche la Tanzania proteggeva poi quegli esponenti del precedente governo rwandese che erano riparati all’interno dei suoi confini.

 

Come si vede, giocando spericolatamente su tutti i tavoli Mobutu cercava di superare le dure opposizioni al suo regime e di risalire così la china in cui stava precipitando mentre altri paesi africani erano coinvolti nella questione rwandese che agiva da stimolo e catalizzatore delle loro rivalità e dei loro problemi.

 

 

 

Le prime vittime della nuova campagna furono i ‘banyamulenge’, i tutsi dello Zaire, quelli che vi erano fuggiti al tempo dei massacri del 1959 e quelli che vi erano nati: attacchi ed aggressioni fecero sì che per tutti questi la sopravvivenza stessa divenne incerta e che a partire dall’ottobre 1995 presero a fuggire in Rwanda.

 

Mentre anche contingenti zairesi combattevano coll’ex-F.A.R. e cogli ‘Interahamwe’ ed in Rwanda si riversavano nuove ondate di disgraziati che abbandonavano tutto quel che avevano per un rifugio che salvasse loro la vita ed i giovani tutsi rifugiati nei nuovi, ulteriori campi profughi (vicino al confine con lo Zaire) comprensibilmente accorrevano nelle fila del R.P.A. dove venivano a loro volta militarizzati, la comunità internazionale - ancora una volta - rimase inerte.

 

Le vicende del Rwanda e dello Zaire erano dunque strettamente legate fra loro e quando confluirono anche con quelle del Burundi l’incendio divampò inarrestabile.

 

 

 

Anche in Burundi fin dall’ottobre 1993 tutsi e hutu avevano preso a combattersi in modo confuso e violento finchè il 26 luglio 1996 con un colpo di stato il tutsi Buyoya aveva preso il potere trovandosi però subito contro Tanzania ed Uganda: a Kigali si realizzò subito che una vittoria hutu in Burundi avrebbe costituito un pericolosissimo nuovo fronte ed oltretutto fatto riversare nuove ondate di rifugiati tutsi entro i confini del Rwanda stesso.

 

Ciò non sarebbe stato sopportabile per il coordinato e disciplinato R.P.F. che, cresciuto nella violenza, dopo il genocidio aveva sempre visto che l’Occidente non era in grado (né voleva?) di prendere in mano la situazione (l’U.N.A.Mi.R. in Rwanda era sempre stata totalmente inefficiente finchè, derisa e disprezzata, nel settembre 1995 se ne era dovuta andare con ignominia) e decise che anche a questa nuova emergenza ci avrebbe dovuto pensare lui coi ben appresi sistemi militari ai quali soltanto era capace di ricorrere.

 

Il R.P.F., abituato ai soli metodi militari ed a risolvere da solo i suoi problemi, decise di risolvere anche questo alla radice invadendo lo Zaire: era lo Zaire (di Mobutu) il massimo sostenitore internazionale degli hutu, responsabili del genocidio compresi; era nello Zaire che gli hutu avevano basi ed organizzazione e ricevevano aiuti e finanziamenti; era dallo Zaire che gli ex-F.A.R. e gli ‘Interahamwe’ partivano nei loro attacchi e nei loro raids in Rwanda; era dallo Zaire infine che il grosso dei rwandesi sarebbe dovuto tornare in patria (dopo essere stato ‘ripulito’ dai responsabili del genocidio).

 

Date le dimensioni dello Zaire assolutamente enormi in confronto a quelle del Rwanda (lo Zaire ha grossomodo le dimensioni dell’Europa ed è 89 volte il Rwanda!) un piano del genere sembrerebbe a prima vista folle ed impossibile, ma fra le province orientali – dove si trovavano i campi dei rifugiati hutu e dove si sarebbe attuata l’invasione - e la capitale Kinshasa si stende un’immensa jungla senza strade, attraversabile solo a piedi (o in aereo): il paese insomma è vittima delle sue stesse dimensioni (e della sua mancanza di strutture), un corpaccione stremato da anni di malgoverno e corruzione, molle e disarticolato, nel quale chiunque poteva entrare con facilità.

 

Il 13 ottobre 1996 l’esercito di Kagame attraversò il confine e lo invase: fu così che scoppiò la prima guerra del Congo – e fu durante questo conflitto che Mobutu cadde finalmente dal potere.

 

A sua volta la prima guerra del Congo non fu che il primo episodio di quella guerra mondiale d’Africa che - mantenendo comunque il suo epicentro nello Zaire – avrebbe coinvolto buona parte dell’intero continente.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La prima guerra del Congo: il vaso africano di Pandora

 

 

 

L’obiettivo dell’invasione era chiaro e semplice: schiacciare una volta per tutte i responsabili del genocidio che ancora minacciavano il Rwanda dagli enormi campi profughi – militarizzati, protetti e finanziati - subito al di là del confine.

 

Tuttavia una volta sul suolo zairiano le truppe di Kagame agirono da catalizzatore per lo scatenamento di tutta una serie di tensioni, crisi e scontri, che coinvolsero molte altre realtà e molti altri paesi africani: tanti problemi dell’Africa, alla ricerca di una sua identità e di un suo equilibrio dopo il tornado del colonialismo, la ‘guerra fredda’, il neocolonialismo, le imposizioni degli organismi internazionali come il F.M.I., erano confluiti infatti ed avevano trovato un punto di contatto nello Zaire - e fu qui che trovarono modo di interagire fra loro in un disegno tanto confuso quanto feroce.

 

Il quadro dei problemi era terribilmente complicato, tanto da risultare caotico e praticamente incomprensibile nelle sue mille articolazioni: le rivalità politiche si intersecavano coi problemi etnici, economici, sociali, religiosi (come l’avanzata dell’Islam nell’Africa Nera), con le eredità del colonialismo, del neocolonialismo (cioè cogli interessi delle potenze straniere sfruttatrici delle risorse africane) e della ‘guerra fredda’ (cioè coi disegni geostrategici delle superpotenze straniere), colle follie di capi megalomani e con mai risolte rivalità ataviche.

 

Molti fili di questa trama incredibilmente complessa e praticamente indescrivibile finirono per incontrarsi nello Zaire, la cui invasione mise così in moto – al di là di quel che gli invasori stessi volevano ed avevano in mente – una serie di reazioni e conseguenze che nessuno allora poteva immaginare e che portarono alla cosiddetta ‘guerra mondiale d’Africa’.

 

Le conseguenze del genocidio in Rwanda non furono insomma la causa, ma il catalizzatore di questa terribile guerra e dell’implosione del Congo: fu qui che si fecero sentire gli effetti dei problemi di tanti altri paesi africani, come il Burundi (in cui la guerra civile era scoppiata nel 1993), il Sudan e l’Uganda in lotta fra loro, lo Zimbabwe (che voleva bloccare l’espansione del Sudafrica verso nord), la Namibia (che, dominata dal Sudafrica, per lo stesso motivo cercava appoggio in Angola), l’Angola perchè l’U.N.I.T.A. di Jonas Savimbi aveva nello Zaire le basi per la sua guerra con il M.P.L.A. al potere, lo Zambia, anch’esso sostenitore dell’U.N.I.T.A (aveva bisogno dei suoi diamanti), il Congo-Brazzaville il cui presidente Lissouba (ancora formalmente in carica) era un sostenitore di Savimbi, ancora l’Uganda, visto che il N.A.L.U., in guerra contro il presidente Yoweri Museveni, era il benvenuto nello Zaire, dove anche le truppe del Sudan trovavano benevola accoglienza nella loro guerra contro l’Uganda, infine la disastrata Repubblica Centrafricana che aveva accolto anch’essa profughi hutu.

 

Data la sua debolezza, Mobutu aveva potuto offrire soltanto basi e rifugio sul suo territorio alle forze che riteneva amiche (o nemiche dei suoi nemici), ma inevitabilmente ciò aveva attirato contro lo Zaire le contromisure ed i contrattacchi dei danneggiati dalla sua politica che quando videro che il R.P.F. non incontrava praticamente resistenza da parte delle truppe di Mobutu, decisero anch’esse di cogliere l’occasione, di muovere all’attacco e di risolvere i loro contenziosi una volta per tutte.

 

Tutto uno scenario fino a quel momento certamente caratterizzato da scontri e lotte si mise ora decisamente in movimento verso la guerra aperta, anzi, verso una serie di guerre particolari che però in un mare di violenza selvaggia si fondevano e si connettevano tutte nello Zaire.

 

 

 

La prima guerra del Congo: la caduta di Mobutu

 

 

 

Subito dopo l’attacco del Rwanda, anche la situazione politica interna dello Zaire si mise in moto: mentre i tutsi congolesi furono ovviamente dalla parte degli invasori, nacque (a Kigali, la capitale del Rwanda) l’Alleanza delle Forze Democratiche per la Liberazione del Congo-Zaire (A.F.D.L.) che univa quattro movimenti di opposizione e che nello stesso ottobre 1996 iniziò la ribellione armata su larga scala contro il governo di Mobutu.

 

Dopo che il troppo nazionalista leader militare dell’A.F.D.L. Kisase fu eliminato dal R.P.A. stesso (!), il fronte zairese anti-Mobutu venne guidato da Laurent-Désiré Kabila (già sostenitore di Lumumba e poi esule in Tanzania e proprietario di un bar), talmente allineato al movimento di Kagame da venir soprannominato ‘Ndiyo Bwana’ (‘signorsì’).

 

Museveni, il presidente dell’Uganda, non solo aiutò l’A.F.D.L., ma decise di inviare sue truppe nello Zaire per assestare il colpo decisivo ai guerriglieri (ugandesi) dell’A.D.F. che, sostenuti dal Sudan, operavano dallo Zaire stesso contro il suo governo: dopo di ciò il piano era quello di risolvere definitivamente la contesa col Sudan ‘sul campo di battaglia’.

 

Ben presto anche il governo dell’Angola inviò nello Zaire due battaglioni di ‘Tigri’ in appoggio al R.P.A., ma soprattutto per farla finita una buona volta con l’U.N.I.T.A. di Savimbi che aveva basi e sostegni nello Zaire stesso.

 

L’A.F.D.L. volle cogliere l’occasione dell’invasione dello Zaire per rovesciare l’odiato tiranno, ma favoriva perfettamente i disegni di Kagame e di Museveni (il presidente dell’Uganda nemico di Mobutu) che cercavano coperture interne nello Zaire stesso.

 

I primi campi ad essere vittoriosamente attaccati furono quelli in Burundi dove emerse subito che gli ex-F.A.Z. e gli ‘Interahamwe’ non avevano nessuna voglia di combattere mentre i profughi fuggivano a centinaia di migliaia in tutte le direzioni: gli attaccanti cercarono di farli fluire verso il confine dove truppe governative del Burundi le attendevano per separare gli innocenti dai responsabili del genocidio (e fucilare subito questi ultimi). Con tutta la grande approssimazione del caso, Prunier calcola che il numero di queste vittime oscilli fra le 25mila e le 40mila.

 

Fu poi la volta dei campi dello Zaire intorno a Goma dove i profughi hutu vennero spinti sempre più verso sud in un clima da fine del mondo: mentre gli ex-F.A.R. e gli ‘Interahamwe’ non erano in grado di reagire e di combattere contro altri militari (erano capaci solo di infierire sulla popolazione civile), centinaia di migliaia di rifugiati vennero spinti in Rwanda in un caos indescrivibile nel quale contare (le centinaia di migliaia d)i morti sarebbe stato semplicemente senza senso.

 

Successo ben maggiore ebbe il rimpatrio dei rifugiati in Tanzania che sarebbe avvenuto in modo davvero ordinato e si sarebbe concluso in dicembre coll’arresto di 3.200 sospetti, 2 morti ed il ritorno in Rwanda di tutti gli altri profughi (!).

 

 

 

Mentre i massacri si susseguivano alle stragi, al solito, la comunità internazionale rimase inattiva anche perchè divisa fra una Francia che, già sostenitrice del precedente governo (genocida) rwandese, rimaneva dalla parte di Mobutu, e gli U.S.A. che erano dalla parte di Kagame (che attivamente aiutavano) e dei ribelli zairesi.

 

Le rare denunce delle uccisioni di massa operate dagli invasori passavano così sotto silenzio, anche a causa del senso di colpa che l’Occidente provava per aver lasciato che il genocidio in Rwanda fosse avvenuto così indisturbato, per una certa comprensione per il sentimento di rivalsa dei tutsi, per l’ammirazione provata per il R.P.F., per la riluttanza ad intervenire in una situazione così confusa e pericolosa ed infine perché in un modo o nell’altro il problema dei campi profughi veniva risolto.

 

Seriamente malato (per un cancro alla prostata), Mobutu tornò in patria dal buen retiro nella sua villa di Cap Martin, ma ormai non era più in grado di influire sulla disastrosa rovina del suo regime e la Francia stessa non potè che inviargli qualche inadatto mercenario (bianco).

 

 

 

Se alcune centinaia di migliaia di profughi furono fatte tornare in Rwanda, altre centinaia di migliaia fuggirono in tutte le direzioni inseguite dalle truppe dell’A.F.D.L. e del R.P.A.: iniziò così una vera e propria feroce e spietata caccia al profugo praticamente in tutto l’immenso territorio dello Zaire.

 

Le truppe degli invasori dilagavano dovunque all’inseguimento dei fuggitivi che tentavano in ogni modo di salvarsi: gli obiettivi ufficiali dell’inseguimento erano gli ex-F.A.R. e gli ‘Interahamwe’ mischiati alla terrorizzata popolazione civile ma – al solito – fu quest’ultima a pagare prezzi terribili, sia che fosse zairese che profuga hutu: l’esercito zairese, gli hutu inseguiti e soprattutto gli inseguitori infierirono infatti in tutti i modi possibili sui disgraziati che trovavano sul loro cammino senza mostrare mai la minima considerazione per la loro innocenza.

 

Per gli inseguitori i fuggitivi erano ‘colpevoli’ di avere, o di aver avuto, degli ex-F.A.R. ed ‘Interahamwe’ fra loro, o di essere, o di essere stati, dalla loro parte o comunque di essere dei nemici: gli inseguitori e gli inseguiti trovavano poi giusto ed opportuno (e necessario) spremere tutto il possibile dalla popolazione indigena sul cui territorio passavano come uno sciame di cavallette (però assassine) ed allo stesso modo si comportò l’esercito zairese: nessuno prese mai le parti o le difese di questi infelici.

 

Nel 2010 un rapporto dell’O.N.U. avrebbe documentato un numero enorme di stragi, di atrocità e di violenze commesse in quei terribili mesi in tutto il territorio dello Zaire: saccheggi, incendi, distruzioni, uccisioni in massa, seppellimenti in fosse comuni, cataste di cadaveri date alle fiamme, stupri, schiavitù sessuale, torture, scarico di cadaveri nei fiumi, mutilazioni, bombardamenti con artiglieria leggera e pesante di campi per rifugiati, inganni (si diceva ai profughi catturati che sarebbero stati portati in Rwanda e poi invece li si mitragliava), machete, sbarre di ferro, martelli, asce, vanghe e zappe usate per uccidere più economicamente, … nulla fu risparmiato né agli sfortunati zairesi incontrati sul cammino né alle folle di fuggitivi, quasi sempre civili disarmati con donne, vecchi e bambini, trattati senza il minimo barlume di pietà.

 

Questo rapporto dell’O.N.U. non avrebbe saputo stabilire se questo sterminio di hutu fu genocidio o ‘solo’ crimine di guerra e/o contro l’umanità, se cioè ci furono la volontà esplicita ed il tentativo del R.P.A. di annientare tutti gli hutu fuggitivi in quanto tali, ma fa ugualmente paura pensare alla sola possibilità che ad un genocidio (dei tutsi in Rwanda) si rispose con un altro genocidio (degli hutu nello Zaire).

 

La Francia tentò pateticamente di convincere i suoi alleati occidentali sulla necessità di una conferenza internazionale, ma la sua fu solo una manifestazione di impotenza.

 

Falliti tutti i (soliti) tentativi di mediazione, dopo che in aprile Kabila si era autoproclamato presidente di quella che venne ribattezzata Repubblica Democratica del Congo, il 17 maggio 1997 le truppe alleate entrarono in Kinshasa e - dopo che i veri o presunti oppositori vi avevano subito ogni sorta di violenza e persecuzione - regolarono a colpi di machete i conti con esponenti e funzionari del regime di Mobutu (il quale nel frattempo era fuggito in Marocco dove morì di cancro alla prostata il 7 settembre 1997).

 

 

 

Finiva così la prima guerra del Congo che, come si è visto, aveva coinvolto tanti altri stati e che segnò una netta sconfitta anche per la Francia che vide fortemente ridimensionati il suo ruolo e la sua influenza nell’Africa francofona a favore degli U.S.A..

 

Mentre massacri dei rifugiati continuavano anche a guerra finita, col ritorno della maggior parte degli espatriati in Rwanda il problema dei campi profughi era stato comunque largamente risolto: era costato circa 300mila morti (dice Prunier), infiniti ed indescrivibili episodi di violenza e di brutalità, feroci misure prese con atroce determinazione, ma era stato sostanzialmente risolto.

 

Kagame ed il R.P.F. (e l’Uganda) avevano ancora una volta mostrato come si decidono le situazioni difficili mentre l’Occidente aveva tergiversato, balbettato, piagnucolato, adottato provvedimenti di carattere umanitario (prevalentemente a favore degli hutu), parlato, indetto conferenze ed incontri, auspicato, invitato, ecc. … senza concludere nulla.

 

 

 

Il Congo di Laurent-Désiré Kabila

 

 

 

Kabila era debitore del suo (relativo) potere a combattenti stranieri, soprattutto rwandesi: egli era arrivato alla presidenza perché il Rwanda aveva voluto risolvere una volta per tutte il problema (della minaccia) dei rifugiati e perché l’Uganda quello col Sudan, ma Mobutu si era trovato contro anche Zimbabwe, Zambia, Namibia, Angola e Tanzania (paesi che un tempo avevano gravitato tutti, chi più chi meno, nell’orbita sovietica ma che ora – imprevedibilità della storia! – si ritrovavano in quella statunitense).

 

La condizione economica in cui Mobutu aveva lasciato il Congo era drammatica: se in una terra così fertile la popolazione di oltre 50 milioni di persone poteva almeno mangiare, tuttavia tutti i settori, quello agricolo compreso, erano andati in rovina.

 

La produzione era precipitata e così (inevitabilmente) la bilancia commerciale e quella dei pagamenti, l’inflazione era schizzata a livelli peggiori di quelli tedeschi del 1923 (!), la (diciamo così) moneta congolese non veniva più accettata ed il commercio era stato sostituito dal baratto.

 

Un disastro di queste proporzioni acuiva ed esasperava la violenza degli scontri tribali e spingeva chi poteva a militare nelle formazioni armate, mentre i tentativi internazionali di porre qualche argine al disastro fallivano uno dopo l’altro anche per l’inconsistenza di ogni struttura pubblica che potesse mettere in pratica le misure suggerite ed auspicate: inevitabilmente le risorse minerarie ricaddero tutte sotto il controllo dei tradizionali sfruttatori sudafricani e belgi che potevano attendere prima di rimettersi a sfruttarle, cosa che non potevano permettersi il lusso di fare le compagnie minerarie nazionali - quelle che avevano sperato di poter entrare finalmente in possesso delle ricchezze del loro stesso paese per tanto tempo fluite all’estero – e questa era una lezione amarissima da imparare.

 

Il 1 luglio 1997 Kabila formò il suo primo governo, largamente composto di ex-fuorusciti e notevolmente eterogeneo e confusione ed arbitrio regnarono fin da subito sovrani: non c’era chiarezza d’intenti né accordo fra i ministri che erano in continuo contrasto fra di loro.

 

La mancanza di istituzioni riconoscibili trasformò i problemi in scontri personali e tribali, mentre Kabila rivelò di essere un altro dittatore, seppur meno violento di Mobutu: mentre la confusione regnava sovrana, ancora una volta i partiti furono vietati e le forze di sicurezza continuarono con gli arresti e la repressione colpendo perfino gli anti-mobutisti non-violenti ed organizzando collettive fucilazioni pubbliche.

 

Questa situazione risultò insostenibile per Clinton che nel marzo 1998 minacciò Kabila di lasciarlo al suo destino se non avesse liberalizzato il suo regime: ciò non avvenne ed in giugno le truppe dell’O.N.U. abbandonarono il paese.

 

Per tutta risposta Kabila il 23 luglio 1998 si recò all’Avana ed il 27, al suo ritorno, accusò i rappresentanti tutsi nel suo governo di tradimento, allontanò bruscamente dal comando del nuovo esercito congolese il generale James Kabarebe (un tutsi rwandese già stretto collaboratore di Kagame) ed ordinò alle truppe rwandesi ed ugandesi di abbandonare il paese.

 

In fondo Kabila voleva essere padrone in casa sua e prendere in mano le sorti del suo paese svincolandosi dalla pesante tutela di coloro che pure l’avevano portato al potere: per questo stesso motivo egli si appoggiava (e favoriva) al suo clan (del Katanga) e, alla ricerca di un contrappeso, aveva poi sviluppato una politica piuttosto conciliatoria nei confronti degli ex-F.A.R. e degli ‘Interahamwe’, ma aveva fatto davvero male i suoi conti.

 

La seconda guerra del Congo: le cause

 

 

 

La rottura col Rwanda (e coll’Uganda) costò infatti cara a Kabila: Kabarebe d’intesa col R.P.A. organizzò immediatamente la ribellione la cui prima azione fu la presa di Uvira, una città vicino al confine col Burundi, il 6 agosto 1998 - tre giorni prima truppe del R.P.A. avevano riattraversato il confine ed erano accorse in suo aiuto.

 

Insieme ai ribelli - sostenitori dell’alleanza col Rwanda - si mosse anche uno strano miscuglio composto di ex-mobutisti, estremisti di sinistra, potenti locali e capi militari che dovevano le loro carriere ai rwandesi, tutta gente insomma tenuta insieme dalla frustrazione di essere stata allontanata dal potere appena raggiunto.

 

Anche gli eserciti di Uganda e Burundi furono coi ribelli, ma sul fronte opposto lo Zimbabwe promise aiuto a Kabila e subito gli inviò truppe, la Namibia gli spedì armi e rifornimenti e, soprattutto, la forte ed armata Angola mandò al di là del confine l’esercito in suo soccorso.

 

Fu grazie a questo immediato sostegno straniero che quelle truppe ribelli che riuscirono ad arrivare a Kinshasa vennero subito o eliminate o macellate dalla inferocita popolazione locale.

 

Era successo infatti che nei due anni della prima guerra la popolazione congolese aveva accumulato un vero e proprio odio nei confronti delle truppe rwandesi responsabili di numerosissime violenze ed atrocità: fu così che allo scoppio delle nuove ostilità il tutto il Congo si scatenò anche una violenta e generalizzata caccia ai tutsi (di qualsiasi paese fossero), considerati automaticamente alleati e sostenitori del Rwanda.

 

Di fronte alla nuova invasione del Rwanda (e dell’Uganda) fu giocoforza per Kabila operare ora un completo rovesciamento politico ed allearsi apertamente con gli hutu (anche del Burundi!), ex-F.A.R. ed ‘Interahamwe’ compresi.

 

La situazione era poi mutata anche a livello internazionale dove, se due anni prima il nemico comune (praticamente di tutta l’Africa) era stato Mobutu, ora il continente si era invece diviso anche se - ancora una volta! – il terreno di scontro era il Congo.

 

Da una parte c’erano i sostenitori di Kabila:

 

in Angola il presidente dos Santos (del M.P.L.A.) era ormai arrivato ai ferri corti coll’U.N.I.T.A. di Savimbi che ai suoi tempi era stato sostenuto da Mobutu, sosteneva quindi il regime che aveva rovesciato Mobutu e, contemporaneamente, cercava di eliminare con un colpo solo l’odiatissimo rivale interno;

 

lo Zimbabwe del presidente Mugabe si opponeva alla strategia di espansione economica – soprattutto nelle miniere del Katanga - del Sudafrica favorevole all’U.N.I.T.A.;

 

la Namibia voleva combattere le infiltrazioni dell’U.N.I.T.A. nel suo territorio;

 

infine, anche la Libia ed il Ciad furono con Kabila.

 

Dall’altra c’erano i sostenitori ed alleati dei ribelli:

 

l’Uganda di Museveni fu importante artefice dell’intervento soprattutto per la sua rivalità col Sudan, accusato di voler destabilizzare l’intera regione in vista di una sua islamizzazione e di sostenere a questo scopo i numerosi gruppi armati che minavano la solidità del regime di Kampala;

 

ma naturalmente era il Rwanda il maggior protagonista dell’intera vicenda: oltretutto, agli attacchi dei congolesi ai rwandesi ed ai tutsi il R.P.A., inflessibile come sempre, aveva risposto con brutalità e senza nessun riguardo per la popolazione civile aggravando (se possibile) le tensioni hutu-tutsi nel Rwanda stesso, col risultato di concentrare sempre più il potere nelle mani di Kagame e di emarginare la presenza hutu nel governo di coalizione.

 

A questo quadro (estremamente lacunoso e sommario) vanno poi aggiunti almeno altri quattro elementi:

 

innanzitutto, quasi tutti i gruppi rivali avevano basi in Congo (e spesso anche in altri paesi), per cui le guerre inevitabilmente attraversavano i confini degli stati belligeranti e venivano combattute spesso in casa d’altri;

 

in secondo luogo, le rivalità fra le etnie (ognuna delle quali spesso era presente in più stati dove conviveva con altre etnie rivali) agivano potentemente nel dividere e nel formare gli schieramenti;

 

in terzo luogo, gli stati erano deboli perché mancavano di legittimità (oltre al fatto che erano poveri): i suoi ‘cittadini’ si sentivano leali alla tribù, alla famiglia, al villaggio, al proprio capo locale, mentre lo stato era sempre di qualcuno che se ne era impadronito per fini di parte;

 

in quarto luogo decisiva era soprattutto la ricerca del bottino e, più ancora, la volontà di mettere le mani sulle regioni orientali, quelle più ricche di risorse. La prima guerra aveva mostrato la facilità con cui ci si poteva impadronire delle miniere e delle foreste del Congo ed ora tutte le parti in lotta volevano sottometterle ai propri controllo e sfruttamento. Ben presto in Congo alla già tristemente lunghissima lista delle violazioni dei diritti umani si sarebbero aggiunti anche la schiavizzazione delle popolazioni locali e lo sfruttamento forzoso ed intensivo del loro lavoro.

 

Come si vede, il quadro era caotico, confuso e potenzialmente esplosivo: dopo lo scoppio della ribellione interna e la nuova invasione del Congo la situazione precipitò in un susseguirsi di scontri brutali che travolsero le patetiche ed inutilissime iniziative di ‘pace’ che non andavano al di là delle buone parole, degli inviti e degli auspici, buone insomma solo a far mentire ed a cercare di approfittarne.

 

Il fatto è che in Africa le guerre inevitabilmente assumono caratteri diversi da quelle combattute nelle altre parti del mondo: data la scarsità delle risorse e dell’organizzazione dello stato, in Africa la guerra deve autofinanziarsi attraverso il saccheggio, la rapina, il contrabbando e lo sfruttamento delle risorse e degli abitanti dei territori invasi.

 

Gli eserciti ‘regolari’(i cui soldati sono pagati poveramente, ammesso che lo siano) si circondano subito di milizie ausiliarie, naturalmente dedite anch’esse al saccheggio sistematico.

 

La guerra si frantuma dunque in una serie di azioni particolari spesso non coordinate fra loro i cui obiettivi e le cui vittime sono le popolazioni civili più che i nemici armati: di qui l’ulteriore violenza della guerra, l’interesse a continuarla per fini di pura razzia e di arricchimento e la conseguente difficoltà a fermarla, visto che ormai è diventata un modo di vivere.

 

Il Congo era sempre stato un paese estremamente ricco di risorse, ma anche questo costituiva ora uno svantaggio ed una maledizione perché tutti i combattenti - eserciti stranieri, esercito nazionale e milizie locali - si erano gettati sui suoi diamanti, rame, oro, caucciù, legname, caffè e coltan (la colombo-tantalite, il minerale raro che rende durevole la carica delle batterie di cellulari e computers): per dare un’idea dell’importanza di quest’ultimo basti ricordare che si credeva che il Congo possedesse l’80% delle sue risorse mondiali (in realtà il Tantalum-Niobium International Study Center a Lasne, in Belgio, chiarisce che esse sono solo il 9%) e che in breve tempo il suo prezzo salì dai 66 agli 880 dollari al chilo.

 

Questa seconda guerra del Congo fu dunque qualcosa di veramente nuovo nel panorama politico africano: paesi africani (il Rwanda di Kagame e l’Uganda di Museveni) si lanciavano in una politica imperialista in Africa (ai danni del Congo) – la prima dell’éra post-coloniale.

 

Per parte sua Kabila ritornò ancora più decisamente alle sue origini: sopravvissuto alla guerra fredda, era rimasto fedele all’ideologia marxista ed il 21 gennaio 1999 fondò così i Comitati del Potere Popolare, esplicitamente concepiti come cinghie di trasmissione di staliniana memoria fra il capo e le masse, il 20 aprile sciolse l’A.F.D.L., in politica estera cercò l’appoggio di Pechino e di Pyongyang ed accusò (non certo senza fondamento) Uganda e Rwanda di aggressione imperialista allo scopo di impadronirsi delle ricchezze del Congo e di sterminarne la (per loro) inutile popolazione; da ultimo, la sua (inevitabile) alleanza con gli ex-autori del genocidio in Rwanda gli alienò ogni possibilità di simpatia residua in Occidente.

 

Dal punto di vista economico i tentativi di Kabila di centralizzare l’economia nei territori sotto il suo controllo furono catastrofici e portarono all’inflazione galoppante ed all’impossibilità di pagare per le importazioni con la conseguente confisca dei beni esportati (!): tuttavia nelle zone controllate dai ribelli e dai loro sostenitori grazie al contrabbando l’economia andava invece meglio.

 

Da parte rwandese si continuava a sfruttare al massimo il senso di colpa che l’Occidente sentiva per la sua inazione al tempo del genocidio e ancora una volta si giustificava il nuovo intervento in Congo con il bisogno di sicurezza, di porre fine alle minacce degli ex-autori del genocidio e di poter ripatriare i profughi hutu (innocenti): anche se tutto ciò non poteva certo autorizzare le atrocità che continuamente venivano perpetrate dagli invasori nei confronti della innocente popolazione civile congolese, queste violenze furono comunque tutte ignorate dall’Occidente (mentre la Francia, già sostenitrice del governo genocida e poi di Mobutu, non poteva che tacere) che continuò a sostenere il Rwanda.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

La seconda guerra del Congo: la rottura del fronte anti-Mobutu

 

 

 

Più la guerra continuava, sempre più gli invasori, Rwanda ed Uganda, dovevano cercare di finanziarla mettendo le mani sulle risorse del Congo - e fu anche per questo che iniziarono a litigare.

 

Essi avevano invaso il Congo insieme, ma con progetti e visioni diverse del suo futuro: mentre l’Uganda era favorevole a lasciare che il paese si governasse da sè, per il Rwanda sarebbe dovuto invece essere mantenuto in una condizione di sottomissione e controllo; i problemi sulla sicurezza erano percepiti diversamente ed infine – e soprattutto - non c’era accordo su come spartirsi le ricchezze e le risorse del paese invaso.

 

Su questo punto le rivalità furono tali che per una intera settimana (dal 7 al 16 agosto 1999) rwandesi ed ugandesi si combatterono apertamente per le strade della città di Kisangani (non a caso importante crocevia a livello nazionale e centro di una regione ricca d’oro e di legnami pregiati).

 

La rottura fra rwandesi ed ugandesi comportò anche quella fra le forze congolesi ribelli a Kabila e nel caos della devastazione e della distruzione senza fine nemmeno le forze governative manifestarono il minimo rispetto per le continue e terribili sofferenze che anche loro stesse infliggevano alla popolazione civile.

 

Come sempre furono infatti le popolazioni civili a pagare i prezzi più alti ed a volte allucinanti: impossibilitate a difendersi, prese in mezzo negli scontri, vittime delle violenze più odiose (seppur spesso militarmente inutili), sfruttate, perseguitate, forzosamente spostate o costrette a fuggire nelle foreste alla ricerca di uno scampo alla morte sempre in agguato, esse pagavano i conti di tutti senza capire nemmeno le cause della loro sorte disgraziata.

 

Alle violenze ed alle uccisioni ‘dirette’ si aggiungevano poi quelle ‘indirette’, cioè quelle dovute alle distruzioni, all’impossibilità di poter coltivare la terra, praticare il commercio, promuovere una qualche forma di economia, al crollo del sistema sanitario ed all’annichilente disperazione: il numero delle vittime civili fu calcolato in 1.700mila.

 

Il 31 agosto 1999 a Lusaka fu infine firmato un accordo che prevedeva il cessate-il-fuoco, il disarmo di tutte le milizie, il ritiro di tutte le truppe straniere ed il loro rimpiazzo coi Caschi Blu: naturalmente un accordo del genere risultò scritto sull’acqua e, se da qualche parte ebbe qualche effetto temporaneo, soprattutto nelle province orientali – Kivu, Ituri ed il Katanga, le prede più ambite per le loro grandi ricchezze minerarie - la guerra semplicemente continuò colla sua serie ininterrotta e praticamente inenarrabile di scontri, massacri, imboscate, devastazioni, uccisioni, violenze, stupri, saccheggi, addirittura casi di cannibalismo.

 

Kabila ricevette l’aiuto di 15mila soldati nordcoreani ed i suoi avversari (come il M.L.C. di Bemba) quello dell’artiglieria dell’U.N.I.T.A. evacuata dall’Angola: Kabila scongiurava l’aiuto dell’Angola, dello Zimbabwe e del Sudafrica mentre 120mila nuovi rifugiati erano costretti ad attraversare il fiume Congo.

 

La ribellione fu però anche la scusa (perfetta) perché Kabila procedesse alla persecuzione violenta dei tutsi e dei cittadini di origini rwandesi e rifiutasse di democratizzare ed aprire il suo regime, ma l’economia del paese, pur così potenzialmente ricco e con una capitale di 6 milioni di persone, era al collasso.

 

L’economia congolese diveniva infatti sempre più rapina, impossessamento e sfruttamento da parte di veri e propri predatori e le esportazioni illegali di merci arricchivano solo quelli che le avevano rubate (all’estero non si badava alla loro provenienza) e, contrariamente a quel che si pensa, i diamanti ne costituivano solo una piccola parte, seppur di facilissimo trasporto (soprattutto col contrabbando).

 

Anche se, come ebbe a dire un membro della missione statunitense all’O.N.U., “per il numero di paesi coinvolti questa guerra oggi è probabilmente la minaccia più grande alla pace ed alla sicurezza mondiale e, considerando il numero dei civili a rischio, una delle più grandi crisi mondiali di sempre.” in realtà nessuno in Congo voleva i Caschi Blu, un po’ per il generale discredito che (comprensibilmente) circondava l’O.N.U. ed anche perché ognuno era convinto della propria prossima vittoria militare e non gradiva occhi indiscreti - così come non li voleva a proposito delle rapine sistematiche che compiva – e voleva continuare a compiere - ai danni del disperato paese.

 

 

 

Joseph Kabila

 

 

 

Quando il 16 gennaio 2001 il presidente Laurent-Désiré Kabila venne assassinato da una delle sue guardie il fallimento del suo regime era ormai evidente: egli da una parte aveva perso la fiducia dei suoi giovani soldati, dall’altra molti (essenziali) appoggi internazionali.

 

Quando nell’autunno 1996 Kabila aveva assunto la leadership della coalizione anti-Mobutu non aveva forze armate proprie, ma le aveva reclutate molto facilmente e molto in fretta: tanti giovanissimi (dai dieci ai vent’anni, età media circa quindici) erano accorsi sotto le sue bandiere perché spesso orfani, poveri, senza istruzione, annoiati e disgustati da Mobutu.

 

Per questi ragazzi, detti ‘kadogo’ (‘piccola cosa senza importanza’), Kabila era divenuto ‘Mzee’ (il ‘vecchio’, un’espressione di rispetto filiale in Swahili), una figura di riferimento a cui si erano dedicati in tutto e per tutto.

 

Due anni dopo, quando era scoppiata la ribellione contro lo stesso Kabila, anche i ‘kadogo’ si erano divisi e si erano combattuti fra loro, ma Kabila aveva continuato a fidarsi di quelli rimasti al suo fianco molto più che degli adulti ed erano stati i ‘kadogo’ a costituire la sua guardia del corpo: tuttavia anche la loro lealtà si era andata logorando per le durezze ed i disagi della guerra, per la mancanza di considerazione nei loro confronti, per la spietatezza del loro addestramento (per esempio dovevano uccidere sul posto i compagni feriti) e per l’accusa di codardia quando erano sconfitti da forze superiori e meglio armate ed equipaggiate, così per loro il ‘Mzee’ si era trasformato sempre più in un odiato orco.

 

A livello internazionale l’Angola, la principale sostenitrice stabilmente passata nel campo occidentale, aveva giudicato poi inaccettabile che Kabila, l’ex-compagno di Che Guevara, continuasse a vivere nel passato ed a considerare gli U.S.A. e l’imperialismo il male assoluto, ma, soprattutto, fosse entrato in affari (i soliti diamanti) con l’U.N.I.T.A., il suo nemico di sempre.

 

 

 

Come successore ad interim di Kabila fu scelto il ventinovenne figlio Joseph, inesperto, vissuto quasi sempre all’estero e (secondo i ‘Nokos’, i padrini angolani dell’operazione) facilmente manovrabile.

 

Nonostante che i militari congolesi, capeggiati dal colonnello Eddy Kapend, pensassero di avere il vero controllo del paese, fin dall’inizio il giovane Joseph seppe muoversi invece con straordinaria velocità e competenza: dichiarò subito che intendeva riconquistare l’intero territorio nazionale, che le truppe straniere dovevano andarsene, che avrebbe rispettato i diritti umani e politici di tutti, che l’economia sarebbe stata liberalizzata soprattutto nel settore diamantifero, che intendeva normalizzare le relazioni con la nuova dirigenza statunitense, migliorare i rapporti con l’Europa (Francia e Belgio soprattutto) e collaborare con l’O.N.U..

 

Detto fatto, si mise immediatamente al lavoro sia nelle relazioni con l’estero che all’interno dove non solo fece arrestare senza tanti complimenti oppositori e sospetti dell’assassinio del padre, ma arrivò a far incarcerare lo stesso colonnello Kapend (!) i cui sostenitori angolani non poterono che accettare il fatto compiuto, preoccupati come sempre dell’U.N.I.T.A. che abilmente andava rafforzando i suoi rapporti con il M.P.L., la forte milizia di Bemba (altro oppositore di Kabila stesso).

 

L’economia cominciò ad essere liberalizzata fin dallo stesso febbraio ed i primi investitori nel settore minerario arrivarono subito; il 12 marzo Kabila decapitò praticamente tutta la dirigenza del settore pubblico e militare rimpiazzandola con uomini suoi, giovani, fedeli, non compromessi e competenti; il 5 aprile fece lo stesso col governo licenziando tutti i ministri tranne due.

 

La velocità e la radicalità della sua azione si accompagnavano alla facilità con cui gli arresti (spesso arbitrari e volti ad impaurire gli oppositori) si succedevano, ma in poche settimane tutta una folla di vecchi arnesi e di maneggioni venne spazzata via per far posto ad un nuovo e moderno personale sia in campo politico che economico.

 

Già il 9 febbraio fu nominata una commissione d’inchiesta per far luce sull’attentato al padre: il 23 maggio questa presentò le sue conclusioni che, per quanto confuse, contorte e per niente convincenti, portarono sul banco degli accusati 115 persone: secondo lo stile del giovane Kabila, il 10 marzo 2002, poco prima che il processo avesse inizio, molti parenti e famigliari degli imputati vennero arrestati e seriamente minacciati così che le udienze si svolsero senza turbamenti, trenta imputati vennero condannati a morte (nessuna condanna venne però eseguita) e cinquantanove a lunghe pene detentive senza che ciò provocasse proteste e disordini.

 

 

 

 

 

 

 

La fine della seconda guerra del Congo

 

 

 

Joseph Kabila aveva potuto muoversi con tanta decisione e disinvoltura anche perché la guerra mostrava intanto evidenti segni di esaurimento: la ‘guerra mondiale d’Africa’ fondamentalmente era stata una guerra fra Rwanda e Congo coll’attaccante che voleva risolvere una volta per tutte il conflitto cogli hutu autori del genocidio (e rendere il grande vicino suo vassallo): tutti gli altri numerosi paesi che erano intervenuti nel conflitto l’avevano fatto per motivi diversi e particolari mentre il Congo era divenuto, come la Germania al tempo della guerra dei Trent’anni, il comune campo di battaglia.

 

Tutti però ormai erano stanchi e nessuno aveva più speranza di cogliere la vittoria sul campo, i costi della guerra si facevano sentire, molti motivi per essere intervenuti non c’erano più e molte alleanze si erano rotte: l’U.N.I.T.A. dopo l’uccisione di Savimbi nel febbraio 2002 non appariva più una minaccia per l’Angola, facendole così perdere il motivo fondamentale del suo intervento; lo Zimbabwe era intervenuto per salvare i suoi interessi contro il Sudafrica (ma in ciò aveva fallito); il Sudafrica avvertiva che era tempo di tirarsi fuori dalla guerra; l’Uganda ormai in rotta col Rwanda sentiva il peso dell’impegno militare che i suoi finanziatori stranieri volevano venisse ridotto mentre il saccheggio del Congo portava solo ad arricchimenti personali.

 

Il vecchio Kabila non c’era più ed al suo posto il giovane e molto più concreto e realista Joseph lavorava alacremente per riorganizzare lo stato e l’economia nei territori sotto il suo controllo e mostrava concretamente i benefici della pace; gli U.S.A. non sostenevano più nessuno e l’O.N.U. aveva recuperato qualche margine di efficienza: finalmente infatti arrivavano gli uomini del M.O.N.U.C. (oltre 5mila secondo la risoluzione 1291 del 24 febbraio 2000) dopo che con la risoluzione 1304 del 16 giugno 2000 a tutte le truppe straniere era stato chiesto di abbandonare il paese.

 

In campo rimaneva insomma solo il Rwanda che per ragioni di sicurezza, di interesse a continuare il saccheggio, di pressione demografica, di un eccessivo apparato militare da tenere buono e per la sua intima e ferma convinzione che solo la guerra risolve i problemi, era intenzionato a continuare, ma ormai anche gli U.S.A. non intendevano più sostenerlo come prima.

 

I tempi erano insomma maturi perché si ponesse finalmente termine all’atroce conflitto: dopo un primo incontro a Lusaka nel febbraio 2001 ne seguì un secondo ad Addis Abeba nell’ottobre, un terzo a Sun City in Sudafrica il 26 febbraio 2002 ed un quarto a Pretoria il 18 luglio.

 

Il Congo si impegnò a consegnare al Rwanda gli hutu implicati nel genocidio; l’8 agosto lo Zimbabwe annunciò il ritiro delle sue ultime truppe, il 16 lo stesso fece l’Uganda e, dopo un ulteriore incontro a New York fra Bush, Kabila e Kagame, anche il Rwanda annunciò il ritiro delle sue milizie: il 17 dicembre 2002 a Pretoria si poterono così firmare i sospirati accordi di pace.

 

Poteva sembrare l’agognata fine della guerra, che in un paese dalle sterminate risorse come il Congo le cose stessero insomma cominciando a marciare nel senso giusto e che tale cammino potesse solo proseguire, ma in realtà, a parte i (giustificati) sospetti di imbroglio, ognuno dei contendenti - dopo che aveva cercato di assicurarsi le migliori posizioni da esibire al momento della pace - continuava a combattere nelle regioni orientali di Kivu e di Ituri per interposta persona, cioè attraverso milizie locali alleate, finanziate ed opportunamente sostenute - anche perché era convinzione comune che, pace o non pace, ci sarebbero voluti anni perché il governo di Kinshasa potesse (semmai) riprendere davvero il controllo effettivo di quei ricchissimi territori.

 

Come quella all’Africa di un secolo prima, era ora in pieno svolgimento una ‘corsa al Congo’ delle cui risorse ognuno voleva una ricca parte e dove ognuno trovava sempre un capo guerrigliero disposto a sostenerlo e ad arricchirlo in cambio di armi e di una fetta dell’abbondante torta.

 

 

 

Nelle province orientali la guerra continua

 

 

 

I depositi delle immense risorse minerarie del Congo sono concentrate proprio nelle regioni di Kivu, di Ituri e del Katanga, cioè nella fascia orientale del paese, quella a ridosso dei confini con Uganda, Rwanda e Burundi, là dove si erano ammassati i profughi, dove erano entrati gli eserciti invasori e dove si continuava a combattere.

 

Come se le coincidenze non bastassero, la vastissima regione era diventata molto più importante ed appetibile proprio dopo il 1993, quando – oltre all’oro ed ai diamanti già conosciuti – vennero scoperti tungsteno, stagno e, soprattutto, coltan.

 

Tutto era sembrato congiurare insomma perché nelle regioni orientali si fossero sommati e si fossero incrociati interessi e tensioni diverse che avevano scatenato guerre e violenze di ogni genere: indubbiamente questa era stata una vera disgrazia per il paese che ancor oggi deve maledire la generosità con cui la natura gli ha elargito i suoi doni.

 

La guerra in Congo era stata – ed era ancora - anche una gigantesca rapina ed un sistematico saccheggio delle sue risorse in modo più (Rwanda) o meno (Uganda) organizzati e c’era la volontà diffusa di proseguire con questa pratica: per motivi puramente economici nelle regioni orientali dunque si continuò a combattere come prima – ma con l’aggravante che ora il feroce massacro veniva trascurato dalla comunità internazionale in quanto giudicato lo strascico secondario di una guerra conclusa.

 

In un clima di caos crescente le truppe ugandesi – dopo che per la terza volta erano rientrate in Congo - alla fine non poterono comunque continuare a rimanerci e nel maggio-giugno 2003 dovettero così ritirarsi (a piedi); il Rwanda – seppur molto meno sostenuto dal presidente statunitense Bush di quanto non lo era stato da Clinton – imperterrito aveva riattraversato anch’esso per la terza volta il confine ed aveva continuato la guerra in un’orgia di reciproche e selvagge pulizie etniche che, fra l’altro, causarono paurosi esodi di civili in Burundi, finchè una maggiore fermezza del Sudafrica, dell’O.N.U. e dei suoi Caschi Blu, nel dicembre 2004 costrinsero anche i ‘duri’ di Kigali a ritirarsi.

 

Tuttavia questi ritiri non hanno cambiato molto il quadro della situazione: nelle province orientali le milizie continuarono a combattere come prima e nuove iniziative e nuovi scontri continuano a succedersi a getto continuo anche adesso, in questa estate 2012.

 

Rwanda ed Uganda rimasero insomma sul territorio per interposta persona, cioè attraverso le milizie locali da loro armate, sostenute e protette: queste milizie a loro volta nascevano sulla base di atavici odi tribali ed etnici che ora trovavano modo di potersi sfogare con grande quantità di mezzi e col miraggio delle grandi ricchezze che attendevano il vincitore che si fosse impadronito delle miniere (e ne avesse schiavizzato i lavoratori).

 

Per parte loro le truppe dell’esercito congolese si comportarono - e si comportano - come le milizie e gli eserciti stranieri: lottarono – e lottano - per il controllo delle miniere ed infierirono – ed infieriscono - senza pietà sui civili.

 

La fine di tutto questo orrore non è nell’ordine delle cose prevedibili perchè troppi sono coloro che guadagnano e traggono elevati profitti dalla situazione in atto: miliziani e militari che controllano l’estrazione e la prima vendita dei minerali; i cosiddetti ‘comptoirs’ che (pagate cospicue licenze al governo di Kinshasa) li portano attraverso l’Africa orientale fino ai porti di Mombasa (Kenya) e di Dar es Salaam (Tanzania); chi li trasporta fino alle fonderie in Asia dove i metalli vengono purificati; chi infine li utilizza (come nel caso del coltan nella costruzione di computers, di telefoni cellulari e di una lunga serie di altri strumenti, dispositivi e congegni; infine tutti noi che troviamo prodotti di alta qualità a basso prezzo e che non sappiamo certo (né ci chiediamo) da dove vengano i materiali con cui sono stati costruiti).

 

Tutti insomma profittano (e profittiamo) di questa anarchica corsa all’accaparramento delle risorse: tutti, beninteso, tranne i disgraziati abitanti di quelle terre.

 

Anche se nel caos generale un certo numero di piccoli minatori è riuscito a rimanere indipendente e continua a scavare per suo conto (tanto che sono sorte anche alcune cooperative che li hanno raggruppati per difenderne meglio i diritti), essi patiscono ogni sorta di violenza, vivono costantemente nel terrore e devono lavorare quasi come schiavi nelle miniere: quando le tragedie arrivano in televisione succede qualcosa, in genere invio di aiuti umanitari, ma da qualche anno si sta assistendo anche ad un certo risveglio della coscienza nei paesi occidentali che cominciano a non voler più essere complici indiretti di questa situazione.

 

Per non favorire più la guerra nel settembre 2009 la compagnia inglese Thaisarco specializzata nella fusione dello stagno cessò di comprare quello proveniente dal Congo orientale; altre compagnie europee, come la belga Traxys, avevano già fatto la stessa cosa; nel 2010 la Thaisarco elaborò poi un sistema che permette (almeno in teoria) la tracciabilità dei minerali e quindi l’esclusione di quelli provenienti da zone in cui ci sono conflitti; nel luglio 2010 addirittura il Congresso degli Stati Uniti impose alle industrie che usavano stagno, tungsteno, tantalo (per il coltan) ed oro di certificare l’origine dei minerali impiegati (fu questa una delle grandi vittorie del presidente Obama).

 

Le intenzioni che hanno ispirato queste misure (ed eventualmente altre dello stesso segno) sono encomiabili, ma secondo Eichstaedt certamente non risolutive: egli infatti nota che, a parte il fatto che le difficoltà perchè queste procedure vengano (e possano essere) messe correttamente in pratica sono molte ed evidenti - l’asperità e la lontananza dei luoghi interessati, la truffa e la corruzione – è poi relativamente facile per le compagnie occidentali volgersi altrove per rifornirsi dei minerali necessari.

 

Per esempio, anche se dal Congo escono 40 tonnellate di oro puro all’anno, le risorse minerarie del Congo orientale (per es. il 9% di tutto il coltan del mondo ed il 5% del suo stagno) non sono così vitali per l’industria mondiale - ma lo sono invece per chi in Congo ci tiene le mani ben strette sopra.

 

Se insomma la compagnie occidentali possono rimediare all’esclusione del Congo orientale come fornitore di minerali, sarebbe invece ben più difficile per i congolesi riuscire a sopravvivere una volta che gli sbocchi alle loro produzioni venissero improvvisamente tagliati; i due milioni circa di minatori facilmente cadrebbero (insieme agli altri abitanti delle regioni interessate) ancor più nelle mani dei loro aguzzini (le milizie e l’esercito) ora affamati ed arrabbiati; la concorrenza (ad esempio la Cina) non potrebbe che avvantaggiarsi da questo vuoto che è facile immaginare riempirebbe subito con poca o nessuna fatica.

 

La conclusione di Eichstaedt e che qui ci troviamo di fronte ad un problema fondamentalmente africano e si deve quindi smettere di cercarne i veri responsabili e le soluzioni al di fuori dei paesi africani coinvolti.

 

Le misure prese dai paesi occidentali e dalle loro compagnie insomma, al di là delle loro sicuramente apprezzabili intenzioni, potrebbero rivelarsi peggiori del male che pure vogliono curare e comunque non sarebbero risolutive: la vera soluzione ai mali del Congo orientale la possono trovare infatti solo i congolesi.

 

Pensare che questi mali possano essere eliminati dal di fuori (dal solito Occidente illuminato) significa continuare a pensare ancora in termini coloniali, quando non si credeva che gli indigeni fossero in grado di prendere nelle loro mani e dirigere la lo stessa vita ed il loro stesso destino.

 

 

 

Il Congo dopo la guerra

 

 

 

Le violenze e gli scontri che erano continuati – e continuano ancora - anche dopo la stipula della pace non erano certo l’unico problema del Congo che usciva dalla guerra ridotto in condizioni pietose.

 

Nonostante la mancanza dell’artiglieria pesante e dell’aviazione sul teatro di guerra e l’esiguità delle forze militari schierate in campo - 13mila uomini dall’Uganda, 24mila dal Rwanda, 120mila (ma solo sulla carta) dall’esercito congolese, 40mila dal R.C.D.–G. (le milizie pro-rwandesi), 8mila dal R.C.D.-M.L. (le milizie pro-ugandesi), 20mila dal M.L.C. di Bemba, fra i 50mila ed i 300mila dai guerriglieri Mayi-Mayi - nei quattro anni e nove mesi di guerra per Prunier erano morte più di 3.500mila persone, per White 3.800mila, per Dowden quasi 4 milioni (insomma il 15% circa della popolazione), quasi sempre per effetto della guerra più che direttamente uccise; per Eichstaedt altri 2 milioni sarebbero poi morti dopo la fine della guerra; 2.300mila persone erano fuggite dalle loro case e si erano accampate in qualche modo all’interno del paese dove erano poi arrivati altri 360mila nuovi rifugiati (soprattutto dall’Angola); tanti altri congolesi erano infine scampati all’estero (nell’altro Congo, in Tanzania, ecc.).

 

 

 

Ai danni delle donne fu perpetrato un numero altissimo di stupri.

 

Lo stupro (e la schiavitù sessuale) fu una realtà comune e praticata da tutte le numerose parti in lotta e per i più vari motivi: naturalmente per il divertimento ed il piacere procurato, per ricompensare i soldati, per torturare, per terrorizzare, per punire, per distruggere la compattezza dell’etnia o del gruppo nemico.

 

Ecco perché allo stupro vero e proprio si accompagnarono penetrazioni con oggetti, mutilazioni degli organi sessuali, obbligo all’incesto, costrizione ad assistere imposto ai famigliari, stupri di massa compiuti in pubblico, volontà di mettere incinta la vittima, e quant’altro la scatenata perversione degli aguzzini riuscì ad escogitare.

 

Secondo le agenzie umanitarie il 60% degli indisciplinati e razziatori combattenti di queste guerre immonde era sieropositivo e conseguentemente un terzo delle numerosissime donne violentate fu infettata dall’A.I.D.S. (una delle grandi piaghe dell’Africa), a volte addirittura volontariamente per distruggere ancor meglio l’odiata etnia nemica.

 

E’ inutile ricordare che l’impunità per questi crimini così odiosi fu pressochè totale – ma chi ha mai pagato per tutto l’orrore del Congo?

 

Il maggior numero delle vittime della guerra furono i bambini e le bambine, quasi la metà della popolazione totale, quella più vulnerabile e più indifesa, cui fu inflitta in misura addirittura maggiore anche tutta la ripugnante brutalità subita dalle donne: infine, come se ciò ancora non bastasse, ai bambini ed alle bambine toccò anche di dover entrare a far parte delle varie formazioni militari, regolari od irregolari che fossero.

 

Identificati con la sigla C.A.A.F.A.G., almeno 30mila bambini e bambine (molti con meno di dieci anni) erano stati arruolati – quasi sempre a forza - come soldati, lavoratori e schiavi sessuali, e come tali avevano visto ed erano stati costretti a compiere ogni sorta di atrocità: il loro addestramento, fatto di torture, violenze, privazioni, fame, percosse, per ‘indurirli’ e renderli adatti alla guerra, si fondeva col lavoro sfibrante e collo spietato sfruttamento.

 

I bambini e le bambine sono esecutori ideali perchè malleabili, suggestionabili, dominabili, indottrinabili e condizionabili molto più degli adulti: dopo essere stati loro stessi brutalizzati venivano poi spinti e costretti a commettere atti di terribile ferocia così da comprometterli, abituarli e renderli perfettamente disponibili ad eseguire qualsiasi ordine – oltre a precludere loro definitivamente qualsiasi via d’uscita.

 

Purtroppo questa non era una novità perchè bambini e bambine da tempo erano arruolati nelle forze armate zairesi, ma il loro numero crebbe notevolmente con la prima guerra del Congo e destò stupore vedere quanti erano diventati negli eserciti del R.P.A. e dell’A.F.D.L. che marciarono su Kinshasa.

 

Data la gravità e la profondità dei traumi subiti nell’età dell’innocenza, quando il carattere era ancora tutto da formare, il salvataggio psicologico di queste commoventi vittime ed il loro reinserimento in una vita con qualche parvenza di normalità era – ed è – un compito difficilissimo e forse insormontabile per coloro che ci provarono – e ci provano - magari dopo averli riscattati (o comprati) dai loro padroni.

 

 

 

Eppure la percezione di tragedie come queste in Congo è molto differente che in Occidente: non sempre i bambini erano stati rapiti perché in condizioni tanto misere e disperate anche quella di entrare in una milizia era diventata una scelta che famiglie e gli stessi piccoli a volte avevano fatto ‘volontariamente’ e fino a tutto il 2009 l’arruolamento dei bambini e delle bambine (per quanto vietato) non era però un crimine nel codice penale del Congo (lo sarebbe diventato solo nel gennaio 2000); lo stupro in un clima di violenza come quello congolese poteva essere visto anche come uno dei tanti diritti del (temporaneo) vincitore o come un costo di guerra, e nemmeno il più pesante (solo nel 2006 la costituzione avrebbe riconosciuto per la prima volta – almeno sulla carta – la parità fra uomini e donne); il miliziano - feroce e rapace per le sue vittime - poteva essere anche il (magari eroico) difensore di un’etnia o di un villaggio dall’aggressione di un altro miliziano nemico.

 

 

 

In un paese dalle enormi risorse e potenzialità come il Congo non si riusciva più nemmeno a calcolare il reddito medio, tanto era basso; in una terra tanto grande, fertile ed irrigata, i 2/3 della popolazione era sottoalimentata; il debito con l’estero aveva raggiunto livelli astronomici; i bambini rimasti senza genitori, le incalcolabili distruzioni e devastazioni, i traumi psicologici di chi aveva sopportato orribili sofferenze e privazioni, la disorganizzazione, il caos e lo sbandamento collettivo erano diffusi ovunque.

 

Eppure, per quanto strano possa sembrare, da una catastrofe del genere ci si poteva solo sollevare e Joseph Kabila sembrò l’uomo giusto per intraprendere questo arduo cammino.

 

Innanzitutto, per assicurare al paese una qualche stabilità politica le cariche di governo ed i seggi in parlamento vennero divisi e spartiti fra coloro che si erano combattuti e che avevano saccheggiato e distrutto il loro stesso paese fino al giorno prima: i più forti insomma si accordarono apertamente per impadronirsi ognuno di una quota del potere, senza la minima attenzione e rispetto per la volontà della popolazione civile: “Tutto vero” conclude Prunier “ma la guerra in qualche modo era finita” e gli ex-nemici, ora fianco a fianco nel governo ed in parlamento, invece di uccidersi lavoravano (seppur con difficoltà) insieme.

 

Il governo si mise così subito al lavoro: la fondamentale industria mineraria (non solo diamantifera) nei limiti del possibile fu riordinata, il franco congolese fu lasciato oscillare liberamente, nel settore pubblico si cominciò a raddrizzare le storture più eclatanti ed a portare un po’ di regolarità, il commercio estero fu rimesso almeno in piedi, quello sul fiume Congo lentamente riprendeva, la comunità internazionale si riaffacciò sulla scena con aiuti questa volta non fuori luogo, i campi per i rifugiati poterono riprendere la loro opera per la sopravvivenza di chi aveva perso tutto e/o non poteva tornare a casa sua, il sostegno economico e finanziario internazionale costò polemiche e recriminazioni, ma era essenziale, e così nuovi fondi continuarono a giungere nelle casse dello stato anche grazie a tutta una serie di ristrutturazioni del debito pubblico.

 

L’altra faccia della medaglia era – ed è – che nelle province orientali dove la guerra non è mai cessata e continua (ad intensità variabile) ancora oggi, si verifica anche la sistematica spoliazione delle loro risorse minerarie, col Rwanda (che non ne possiede affatto sul suo territorio) primo esportatore mondiale di coltan, coll’Uganda secondo esportatore mondiale d’oro (mai estratto sul suo territorio) e con le milizie che esportano capitali in Kenya e nella Repubblica Centrafricana.

 

Circa poi le miniere sotto controllo governativo, nell’aprile del 2007 venne istituita una commissione per rivedere tutti i contratti con le compagnie minerarie straniere che, siglati quattro anni prima, avevano portato indubbi benefici allo stremato paese, ma erano risultati troppo sbilanciati a favore delle suddette compagnie estere: quattro anni dopo tuttavia il deputato laburista britannico Eric Joyce, presidente del gruppo parlamentare per la regione dei Grandi Laghi, ha documentato in modo inoppugnabile come la pratica di svendere le immense risorse del paese a compiacenti compagnie straniere purtroppo continua ininterrotta.

 

Forse ancora più gravi erano – e sono - i contratti con le compagnie straniere per il taglio indiscriminato di alberi e per l’esportazione del legname, operazioni che stanno portando il paese al disastro ecologico (oltre al fatto che i lavoratori erano – e sono - pagati un’infima miseria per distruggere un patrimonio di inestimabile valore); un altro disastro ecologico è quello causato dalle stragi indiscriminate di animali - come ad esempio quello degli elefanti (nel 2011 un chilo di avorio rendeva più di un anno di lavoro nei campi), dei rinoceronti bianchi e dei famosi gorilla di montagna.

 

Eppure il processo politico andava avanti: il 18 dicembre 2005 un referendum approvò la nuova costituzione con la partecipazione del 62% dell’elettorato che, data la vastità del territorio e le sue condizioni miserabili, fu un indubbio grande successo; il 30 luglio 2006 al primo turno delle elezioni presidenziali parteciparono 18 (su 25) milioni di votanti ed al secondo turno (il 29 ottobre) il 70.54% di coloro che si erano registrati elesse Kabila (58%) contro Bemba; alle elezioni legislative del 22 settembre 2006 i 500 membri del parlamento risultarono estremamente divisi in un gran numero di ‘partiti’ (che in realtà esprimevano divisioni tribali, etniche e clientelari) ma il voto era stato sostanzialmente libero e, insomma, questa era una bellissima – e stupefacente – novità.

 

Ciò non tolse che, oltre alla grave instabilità che permaneva nelle province orientali, il paese rimane diviso fra la parte orientale che parla Swahili (in genere schierata con Kabila) e quella occidentale che parla Lingala (in genere schierata con Bemba): né che inevitabilmente tensioni e problemi continuarono per qualche tempo ad agitare la scena politica, come quello di disarmare le varie milizie e di integrare i loro uomini nell’esercito regolare, ma anche quest’ultimo venne sostanzialmente risolto con la sconfitta di Bemba (il più restio ad adempiere all’ordine di smobilitazione) ed il suo conseguente abbandono del paese l’11 aprile 2007.

 

Le ultime novità sono che nonostante continuassero a manifestarsi molteplici episodi di violenza, il 28 novembre 2011 30milioni di aventi diritto al voto sono stati chiamati alle elezioni presidenziali, nelle quali si fronteggiarono soprattutto Joseph Kabila ed Etienne Tshisekedi, ed a quelle politiche, con 18mila candidati aspiranti ai 500 seggi dell’Assemblea.

 

Kabila è emerso ancora una volta vincitore anche se le elezioni sono state contraddistinte da incidenti anche mortali, da disservizi e da accuse di brogli.

 

 

 

In conclusione e nonostante tutto, oggi si può essere moderatamente e prudentemente fiduciosi sul futuro del Congo che sembra comunque avviato sulla strada del risanamento ed anche di un certo sviluppo; anche se i combattimenti nelle province orientali fra le varie milizie (più o meno sostenute dai paesi vicini) continuano e l’esercito non appare in grado di riportare sotto controllo la situazione, fortunatamente però lo scoppio di una nuova guerra non sembra probabile perché rispetto al 1998 le condizioni interne ed internazionali sono decisamente cambiate.

 

Non ci sono in vista rivolte all’interno dell’esercito congolese, il Rwanda, seppur ancora interessato alle risorse minerarie del Congo, è coinvolto ad un livello ridotto rispetto al passato (dato anche il danno profondo recato alla sua immagine dalla denuncia degli orrori perpetrati dai suoi soldati durante la campagna militare), Kabila è legittimato al potere e la comunità internazionale lo sostiene.

 

 

 

Il rapporto dell’O.N.U.: genocidio?

 

 

 

Una commissione dell’Alto Commissariato dell’O.N.U. per i Diritti Umani guidata dalla sudafricana Navi Pillay nel luglio 2008 iniziò i suoi lavori e nel settembre 2010 rese pubblico il suo rapporto nonostante le proteste e le minacce del Rwanda.

 

Il rapporto prende in esame i 617 crimini di guerra e contro l’umanità più eclatanti avvenuti in Congo dal marzo 1993 al giugno 2003: compilato con grande attenzione e scrupolo, esso riesce ad articolare con chiarezza le fasi ed i momenti di quel tormentato decennio, ben consapevole che la terribile storia di orrori che racconta purtroppo non era ancora terminata (né lo è ancora oggi, agosto 2012).

 

 

 

La data di inizio dei crimini che il rapporto prende in esame è il 20 marzo 1993, quando la milizia katanghese J.U.F.E.R.I., d’accordo con le autorità e la gendarmeria zairesi, organizzò una campagna di persecuzione contro i Kasaiani nella regione del Katanga - un problema interno del Congo esploso un anno prima del genocidio in Rwanda.

 

Gli abitanti delle province del Kasai, massicciamente trasferiti dai belgi nel Katanga, fin dai tempi di Mobutu erano stati sempre più osteggiati dai katanghesi che li accusavano di arricchirsi ai loro danni: la crisi del regime di Mobutu aveva fatto il resto, col vecchio dittatore sempre alla ricerca tensioni interne da fomentare perché gli permettessero di rimanere a galla.

 

Le atrocità e la violenza furono (al solito) gravissime (il rapporto ricorda gli episodi più sanguinosi) e, anche se la cifra finale di 50mila morti non può essere confermata, nel novembre 1995 oltre 1.250mila kasaiani avevano dovuto comunque fuggire dal Katanga.

 

 

 

Il rapporto continua poi lungo le due guerre del Congo e si capisce perché il Rwanda abbia cercato di ostacolarne la pubblicazione: in esso infatti si enumerano violenze ed atrocità commesse da tutte le numerose forze in campo, ma si afferma anche che le più numerose e diffuse si verificarono durante la prima guerra del Congo ad opera soprattutto delle truppe del R.P.A. e dei suoi alleati dell’A.F.D.L..

 

Le vittime in questo caso furono gli hutu che - dopo che i loro campi profughi erano stati espugnati ed un certo numero di loro (se riconosciuto innocente del genocidio) era stato rimpatriato in Rwanda - fuggirono invece verso ovest e vennero inseguiti senza tregua per tutto l’immenso territorio dello Zaire.

 

Sia i fuggitivi che gli inseguitori commisero ogni forma di brutalità ai danni delle popolazioni civili che incontrarono sul loro cammino, ma, oltre a ciò, il R.P.A. (e l’A.F.D.L.) fece strage degli hutu che cadevano nelle sue mani, quasi sempre civili, donne, vecchi e bambini, e raramente ex-F.A.R. ed ‘Interahamwe’.

 

 

 

Posto che fu commesso un numero spropositato (ed incontabile) di crimini di guerra e contro l’umanità, il rapporto arriva a chiedersi addirittura se si trattò di genocidio, questa volta ai danni degli hutu nello Zaire, se cioè gli hutu nello Zaire non vennero cacciati e massacrati ‘as such’ (cioè ‘in quanto tali’) ed in base ad un premeditato progetto di sterminio – appunto le circostanze che rendono uno sterminio un genocidio.

 

Data la regolarità, l’inesorabilità e la mancanza di scrupoli con cui gli hutu che venivano raggiunti e catturati erano abbattuti, gli argomenti per rispondere affermativamente alla domanda non mancano e potrebbe proprio sembrare che i tutsi (rwandesi e no) volessero cancellare dalla faccia della Terra tutti gli hutu nello Zaire.

 

E’ anche vero però che centinaia di migliaia di hutu vennero invece rimpatriati (e non solo all’inizio della campagna) e questo è un argomento di forte rilevanza che farebbe rispondere negativamente alla domanda, così che il rapporto non riesce a fornire una risposta precisa e definitiva e non può che delegare ad una futura ed auspicata corte competente la decisione in merito al problema.

 

In ogni caso dal rapporto risulta evidente che nel mare delle violenze commesse da tutti molte furono opera del Rwanda e che il solo discutere se anche qui si trattò di genocidio (questa volta operato dai tutsi ai danni degli hutu) ridimensiona notevolmente il sentimento di partecipazione e di solidarietà (ed il complesso di colpa) provato dalla comunità internazionale nei confronti dei tutsi del Rwanda, le vittime di quello del 1994.

 

 

 

Il rapporto si dilunga poi notevolmente sulla situazione della giustizia nel Congo e sulla possibilità (e sulla necessità) di pervenire allo stabilimento della verità, alla punizione dei colpevoli ed al risarcimento delle vittime: dato che esso si occupa solo dei crimini di guerra e contro l’umanità commessi in Congo nel decennio 1993-2003 è logico che questa sia una preoccupazione dominante del rapporto.

 

Esso procede attentamente e in modo documentato su questa strada e questo è il suo limite: manca in esso quasi completamente la ricostruzione del quadro storico in cui i fatti criminosi narrati si verificarono e, per esempio, fa solo un accenno frettoloso alle enormi risorse del paese ed alla loro importanza in tutta la vicenda.

 

Volendo comunque rimanere all’interno del campo della giustizia, bisogna riconoscere che qualche successo è stato raggiunto, come dimostra ad esempio il processo contro Bemba.

 

Grazie all’aiuto ed al finanziamento dell’Uganda, Bemba era stato uno dei tanti a fondare il suo (ennesimo) gruppo armato ed a lanciarlo nella rivolta del 1998: in pochi mesi questo suo M.L.C. (Movimento per la Liberazione del Congo) era divenuto una delle maggiori forze in campo nel Congo settentrionale e così Bemba – in poco tempo divenuto anche uno degli uomini più ricchi del suo paese grazie alle sue stazioni televisive private ed al business dell’aviazione e delle radio portatili - era stato prima uno dei quattro vice-presidenti di Joseph Kabila quando finalmente la guerra era finita e poi lo sfidante principale di quest’ultimo alle elezioni presidenziali del 2006.

 

Tuttavia, dopo essere stato, come si è visto, costretto al disarmo ed all’esilio, venne accusato dalla Corte Penale Internazionale (dell’Aja) di crimini di guerra e contro l'umanità per aver spinto i suoi uomini a commettere stupri, omicidi e persino cannibalismo nella Repubblica Centrafricana nel 2002-03, e, arrestato vicino a Bruxelles il 24 maggio 2008, il 14 luglio 2010 è cominciato il processo contro di lui.

 

Quattro anni prima, nel novembre 2006, era toccato a Thomas Lubanga, il capo di una delle tante altre milizie, di essere accusato anche lui di crimini di guerra e di aver rapito e costretto a combattere migliaia di bambini: arrestato, processato, riconosciuto colpevole nel marzo 2012, nel luglio seguente è stato infine condannato a 14 anni.

 

Tuttavia su questo argomento bisogna essere realisti (o cinici): questi processi (portati avanti dagli stessi congolesi) effettivamente potrebbero dare l’impressione che sia finalmente iniziato in Congo il cammino della giustizia che porti alle condanne dei colpevoli ed ai risarcimenti per le vittime, ma purtroppo questa sembra proprio un’illusione.

 

A parte ogni altra considerazione, il sistema giudiziario congolese non ha assolutamente i mezzi per processare almeno i maggiori responsabili del disastro e degli episodi più gravi: ma quale stato potrà mai avere strutture sufficienti per istruire centinaia di migliaia di pratiche per centinaia di migliaia di accusati? In un paese oltretutto di queste dimensioni? Chi potrà mai stabilire un ordine di priorità degli infiniti reati? Quali giudici congolesi potranno mai pretendere di essere in grado di valutare serenamente le innumerevoli atrocità commesse praticamente da tutte le forze in campo? E chi mai potrà trascinare sul banco degli accusati militari e governanti stranieri?

 

Troppo vasto ed esteso era stato – ed è – l’oceano di violenza e di dolore, troppi i responsabili ed i colpevoli, troppo esiguo il numero (ammesso che pure ci sia) degli innocenti – a parte ovviamente le innumerevoli vittime, i soliti che pagano sempre per tutti.

 

Nonostante fra le risoluzioni che avevano accompagnato gli accordi di Sun City dell’aprile 2002 risultasse preminente quella di assicurare la giustizia attraverso l’istruzione di processi che punissero i colpevoli e risarcissero le vittime, e nonostante il governo abbia anche cercato di fare qualcosa, in verità dal 2003 al 2010 sono stati trattati solo una dozzina di casi (due dei quali citati nel rapporto dell’O.N.U.) e in genere su sollecitazione esterna.

 

Non ci sono parole che possano esprimere in modo più eloquente questa sconfitta totale della giustizia, ma – nonostante il rapporto dell’O.N.U. dedichi molto spazio a questo problema ed affermi che se la verità non verrà stabilita e giustizia non sarà fatta i congolesi non potranno mai procedere sulla via della pace né avere la sicurezza che il passato (e che passato!) non tornerà – in realtà, data questa situazione concreta, sembra più opportuno concludere che al Congo non resta che dimenticare e guardare avanti sperando che le ferite cicatrizzino da sole.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Bibliografia

 

 

 

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Victor G. Kiernan: “Eserciti e imperi” – Il Mulino, Rastignano (BO) 1985.

 

 

 

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Gérard Prunier: “Africa’s World War” – Oxford University Press, 2010.

 

 

 

Da “I grandi enigmi” – collana diretta da Arrigo Petacco:

 

Chi ha ucciso Lumumba?” – fascicolo 34 – De Agostini, Novara 1983.

 

Hammarskjold – la fine di ‘Mister H’” – fascicolo 51 – De Agostini, Novara 1983.

 

 

 

Dambisa Moyo: “Dead Aid” – Penguin Books, St Ives 2009.

 

 

 

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London 2009.

 

 

 

Peter Eichstaedt: “Consuming the Congo” – Lawrence Hill Books, Chicago 2011.

 

 

 

Matthew White: “Il libro nero dell’umanità” – Ponte alle Grazie, Trebaseleghe 2011.

 

 

 

J. Gerlach: “The Congo. A European Invention” – Microcosm Publishing, Portland

 

2012.

 

 

 

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Report of the Mapping Exercise documenting the most serious violations of human rights and international humanitarian law committed within the territory of the Democratic Republic of the Congo between March 1993 and June 2003”.

 

 

 

 

 
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