logotype
foibe

 

 

Nel 2011 sono passato per lavoro , da Damasco in Siria , e poi in macchina fino ad Aleppo. Qui non si stava male , la sera potevo passeggiare da solo per le vie della città , ad ammirare i negozi locali, e andare al ristorante. Un pomeriggio molto caldo, sono stato invitato in una festa privata in un ristorante di lusso; in un tavolo a bordo piscina. Ero sorpreso dal fatto che molti uomini e donne, erano vestiti con abiti tradizionali, coperti fino agli occhi, e in piscina delle donne facevano il bagno in costumi europei.

 

Mi chiedevo che fine avesse fatto il dittatore Assad, perché non si sentiva la sua presenza. Solo negli uffici e nei bar si poteva ammirare la sua grande foto appesa ai muri.

 

I siriani al mio tavolo, mi avevano spiegato che la loro era una popolazione mista; arabi, turchi, circassi e che la città era piena anche di chiese cristiane, perché Aleppo era la terza maggiore città cristiana del mondo arabo; e la prima città a fregiarsi del titolo di “ capitale culturale del mondo islamico.”

 

Alcuni giorni dopo , al lavoro ho conosciuto un giovane tecnico croato, che si trovava nella mia stessa ditta, per lavori di software su macchine del cliente. Abitava a Pula in Croazia.

 

Parlava italiano, ma non è stato facile diventare suo amico, perché era sempre serio e schivo; non si fidava di nessuno. Sopratutto degli italiani . Comunque io cercavo di farlo parlare, per conoscerlo meglio.

 

Così col passare dei giorni, scoprii che gli piaceva l'Italia e che all'occorrenza , quando un siriano gli chiedeva da dove veniva, si faceva passare come italiano.

 

Ma feci anche un'altra scoperta, che dentro di lui lottava tra l'odio verso gli italiani, che i suoi genitori e parenti gli avevano trasmesso , per quello che era successo nella guerra del 1943, e l'amore per l'Italia e gli italiani, che aveva conosciuto , crescendo con la “ TV” italiana e poi con il suo lavoro.

 

L'ultimo giorno, prima di partire andai a salutarlo, e gli feci dei saluti normalissimi;”stammi bene e spero di incontrarti ancora perché con te mi sono trovato bene ecc. ecc.”.e lui mi ha risposto;”ok, tanto non credo a quello che mi hai detto..”.

 

 

Non credeva che un' italiano potesse diventare amico di un croato. Dopo quello che in nostro e il suo popolo avevano fatto.

 

 

Questo giovane croato quasi si vergognava delle Foibe; cosa che ancora oggi ,vedi i giornali di questi giorni, i comunisti minacciano chiunque osi parlarne.

 

Così per rinfrescare la memoria anche ai giovani rossi e neri, qui sotto trovate la vera storia.

 

 

Ps: L'anno dopo, l'ho incontrato in Iran, ma questa volta era più sorridente.

 

 

 

Lucio Gentilini

 

 

PULIZIA ETNICA ANTI-ITALIANA

IN VENEZIA GIULIA, ISTRIA, FIUME e DALMAZIA

 

Introduzione

 

Anche se con la legge 30.03.04 che al suo art. 1 stabilisce che

La Repubblica riconosce il 10 febbraio quale “Giorno del ricordo “ al fine di conservare e rinnovare la memoria della tragedia degli italiani e di tutte le vittime delle foibe, dell’esodo dalle loro terre degli istriani, fiumani e dalmati nel secondo dopoguerra e della più complessa vicenda del confine orientale.”

il dramma vissuto dai nostri connazionali dell'Italia nord-orientale negli ultimi anni della seconda guerra mondiale e nel dopoguerra comincia finalmente ad essere portato all’attenzione dell’opinione pubblica e diviene, dopo sessant’anni di inaccettabile silenzio, oggetto di conoscenza e dibattito pubblici; dopo che nel 2005 per la prima volta i mass media hanno allora trattato con numerosi servizi ed interventi qualificati questa dolorosissima pagina della nostra storia; dopo che celebrazioni ufficiali hanno ricordato con partecipazione e commozione il terribile destino di tante vittime innocenti togliendole, seppur con tanto ritardo, dall’anonimato nel quale versavano; dopo che sono venute meno le esigenze politiche che consigliarono in passato di tacere su fatti indubbiamente difficili o impossibili da spiegare; ebbene, nonostante tanti passi avanti, rimane il fatto che il tono ed il taglio storico con cui gli eventi in questione vengono pubblicamente ed ufficialmente trattati sia parziale ed incompleto mentre sui testi scolastici oggi in circolazione i riferimenti a proposito di tutta questa intera questione sono estremamente scarsi e lacunosi quando non del tutto assenti.

Le pagine che seguono si propongono così di offrire una ricostruzione più adeguata di questo momento così tragico e complesso della nostra storia recente.

 

La situazione italo-slava fino all’occupazione

nazifascista

 

I trattati di pace del 1919, del 1920 e del 1924 avevano definito i confini fra l'Italia e la Jugoslavia appena costituita. Erano così entrati a far parte dell’Italia territori - Venezia Giulia, Istria, Fiume ed enclaves in Dalmazia - la cui popolazione era indubbiamente italiana nelle città, ma largamente slava - slovena e croata - nelle campagne. Non è ancor oggi ben chiara l’esatta composizione numerica delle due etnie: se infatti, per es., il censimento del 1936 in Venezia Giulia parlava di 1.024.000 abitanti, di cui 600.000 italiani e 380.000 sloveni, per gli jugoslavi gli sloveni erano invece 538.000. Nel 1914, tuttavia, gli italiani erano stati circa 350.000 contro circa 470.000 slavi: prima della guerra il governo austriaco aveva attirato slavi per indebolire lo spirito irredentistico degli italiani, ma dopo di essa si era verificata un’emigrazione piuttosto forte in senso inverso sia dell’elemento austriaco che della borghesia slava di recente acquisizione.

 

 

Il fascismo aveva poi praticato una massiccia opera politica volta all'esaltazione dell'elemento nazionale italiano ed alla negazione dell’identità slava con tutta una serie di misure tanto capillari quanto vessatorie (basti pensare alla vera e propria persecuzione linguistica, ai mille divieti e proibizioni, alle discriminazioni ed all’aperto disprezzo per tutto ciò che era slavo) e ciò aveva alimentato ulteriori tensioni supplementari, anche violente (soprattutto ad opera di associazioni clandestine), fra le due etnie, ma certamente nulla sembrava poter minacciare seriamente l'appartenenza di questi territori alla Italia.

 

Fu con la guerra che la situazione entrò in movimento.

 

Il 26.3.41 il generale jugoslavo Dusan Simovic, sostenuto da un entusiastico appoggio popolare, rovesciò con la forza il governo di Milan Stojadinovic, di fatto alleato (poco convinto) dell'Asse, ed il diciassettenne re Pietro II, dichiarato maggiorenne, ordinò la mobilitazione generale. La risposta tedesca fu immediata ed il 6 aprile partì l' operazione "Castigo", cui si associarono subito anche italiani, ungheresi e bulgari.

 

Nello stesso giorno le truppe tedesche arrivavano in aiuto di quelle italiane anche in Grecia e così in pochi giorni tutta la penisola balcanica veniva completamente occupata spartita fra i due ‘alleati’.

 

Anche se l’Italia per la sua debolezza era ormai in una posizione di netta subordinazione rispetto alla Germania, comunque le toccarono il Montenegro, quasi per intero la Bosnia-Erzegovina e la Slovenia centro-occidentale, all’Albania (italiana) vennero annessi territori limitrofi, mentre la Croazia – alla cui testa il filo-italiano Ante Pavelic era capo di uno stato formalmente indipendente ed alleato (le cui risorse erano però controllate dalla Germania) – venne divisa in tre zone: una italiana (la Dalmazia), una croata ed una intermedia fra le due, controllata comunque dagli italiani.

 

 

 

Spazio vitale italiano e razzismo fascista

 

 

 

Anche se può sembrare che l’occupazione della penisola balcanica sia avvenuta per motivi contingenti ed interni al corso degli eventi bellici, in verità essa rientrava in un quadro ben più vasto e definito in precedenza: già esistevano infatti i progetti mussoliniani sul futuro assetto dell’Europa e del Mediterraneo che, tanto ambiziosi quanto velleitari, si sarebbe tentati di considerare frutto di una vera e propria allucinazione.

 

Il fascismo voleva conquistare un suo proprio ‘spazio vitale’ all’interno del quale l’’uomo nuovo’ – il conquistatore maschio e severo nato dalla rivoluzione – avrebbe prosperato.

 

Ecco allora che l’Europa mediterranea si sarebbe dovuta dividere in tre zone: una prima che comprendesse l’Italia allargata ai territori annessi (Dalmazia, Slovenia centro-occidentale, Corsica, Nizza e, forse, la Bosnia-Erzegovina) delle nuove province italiane; una seconda coi ‘membri europei’ (Croazia e Serbia) che un domani avrebbero potuto ottenere anche indipendenza od autonomia, ma sotto il controllo di Roma; una terza coi territori coloniali e sottomessi.

 

Tutto questo in un quadro apertamente razzista: era esplicitamente teorizzato che slavi (e greci) erano costituzionalmente inferiori agli italiani ed inassimilabili alla loro superiore razza civilizzatrice.

 

Il razzismo fascista fu una cosa seria che non nacque né all’improvviso né per scimmiottare il Terzo Reich: fu un concentrato di teorie e culture di diversa provenienza che pretendevano validità scientifica. Tutto era cominciato con lo studio e la lotta all’emigrazione, aveva trovato alimento ed ispirazione nelle guerre coloniali, si era inserito in una rivisitazione della nostra storia nazionale su basi razziste, ed infine aveva trovato coronamento nella guerra a fianco dei tedeschi: sarebbe stata questa, sferrando quel salutare ‘calcio nel culo’ di cui gli italiani avevano bisogno, a forgiare definitivamente l’’uomo nuovo’ fascista, il virile conquistatore conscio della propria superiorità.

 

Il razzismo non riguardò soltanto i fascisti: l’esercito italiano ed i funzionari statali concordarono e collaborarono alla riuscita dei suoi progetti, né si volle lesinare sui mezzi disponibili: nei Balcani stazionarono ben 650mila soldati (di cui 160mila in Grecia).

 

 

 

Fantasie e realtà

 

 

 

Solo se si tiene ben presente questa convinzione – del tutto fantastica , insostenibile, insensata ed irrealistica – di superiorità razziale che animava gli italiani si può capire perché nei mesi ed anni seguenti questi si macchiarono di tanti odiosi e ben reali crimini: le nuove province andavano infatti snazionalizzate e colonizzate, insomma, ben ripulite e rese omogenee dal punto di vista etnico per essere definitivamente italianizzate e fascistizzate.

 

E i sistemi per realizzare questi obiettivi – e per reagire alla crescente resistenza dei partigiani slavi – furono (e sono) sempre tragicamente gli stessi: repressioni, deportazioni, devastazioni, rappresaglie, fucilazioni. Comportamenti già adottati in Africa vennero riproposti in questa guerra coloniale che, come tutte le guerre coloniali, implicava mezzi sproporzionati: terra bruciata, ‘sbalcanizzazione’, ‘bonifica etnica’, prelevamento di ostaggi, internamenti, incendi di case e villaggi, distruzione perfino di boschi, istituzione di campi di concentramento (fra i quali spiccò tristemente quello sull’isola di Arbe).

 

La Slovenia, divisa a tutto vantaggio dei tedeschi e nella sua parte italiana divenuta provincia di Lubiana, aveva per questo perso anche la sua autonomia economica.

 

La Dalmazia – dalle Alpi Dinariche al mare Adriatico – andava ritalianizzata mediante l’espulsione graduale degli slavi ed il ripopolamento ad opera delle genti italiane, a cominciare dai discendenti delle antiche genti venete un tempo colà residenti.

 

La Croazia – pur privata della sua fascia costiera e divisa in tre zone – era invece uno stato formalmente indipendente ed alleato ove stazionavano truppe italiane.

 

Il 18.05.41 il trattato italo-croato aveva fissato frontiere, alleanze, aiuto reciproco e collaborazione, ma immediatamente gli ustascia – i nazionalisti fascisti croati - , appoggiati dai tedeschi, si scatenarono in una campagna di sterminio di ebrei, serbi ed oppositori croati con una ferocia ed una brutalità senza limiti, cui presero parte anche sacerdoti cattolici: le nostre truppe ebbero l’ordine di non interessarsi né di intervenire o proteggere i disgraziati che cercavano scampo dalla sanguinaria persecuzione, nonostante fosse iniziata anche una violenta campagna perché i ‘porci’ italiani restituissero la Dalmazia.

 

Dopo l’attacco all’ U.R.S.S. (22.06.41) iniziarono le prime rivolte organizzate e la repressione ustascia fu, se possibile, ancora più forsennata – sempre nel silenzio degli italiani, a parte qualche iniziativa isolata.

 

Eppure, nonostante l’allucinante barbarie, gli ustascia non furono in grado di gestire la situazione e a fine agosto Mussolini – su proposta tedesca – ordinò l’occupazione dell’intera Croazia, ormai alleato inaffidabile, per garantire la sicurezza delle zone annesse. Le formazioni ustascia vennero sciolte, la sovranità croata annullata e le minoranze protette.

 

Il bando del 07.09.41, nell’attribuire i poteri civili al comandante della II Armata, gen. Ambrosio, tentò di inaugurare una politica di pacificazione, ma attirò l’accusa che in verità si mirasse alla conquista dell’intero paese.

 

Un anno dopo, il 01.06.42, le truppe italiane sgombrarono la zona intermedia e poteri secondari vennero riaffidati ai croati, ma nello stesso giorno si riattivò la spirale della violenza: il ritiro dei presidi italiani precipitava le minoranze nella disperazione e nella convinzione di essere stati traditi ed abbandonati.

 

Intanto i tedeschi sviluppavano un’attiva politica di penetrazione culturale ed economica nell’intero paese, riservandosi anche la direzione delle operazioni contro i resistenti e senza disdegnare una aperta propaganda antitaliana: erano i tedeschi ad avere in mano la Croazia e, soprattutto, potevano far leva sulla minoranza tedesca e contare sul fatto che buona parte degli abitanti parlava la loro lingua.

 

Insomma, nonostante ufficialmente riconoscessero la Croazia spazio vitale italiano, i tedeschi sfruttarono appieno l’avversione croata verso l’Italia rendendo di fatto di secondaria importanza i precedenti accordi fra i due paesi.

 

 

 

I

 

 

 

Nella Jugoslavia invasa la repressione nazifascista si era scatenata brutale ed indiscriminata, ma anche la risposta degli jugoslavi era sta molto rapida: due mesi dopo l’invasione era già iniziata la resistenza, anch'essa in un crescendo di inaudita ferocia e crudeltà.

 

Nel corso del ’42 in Slovenia e Dalmazia ci fu tutto un intensificarsi della lotta partigiana che, bloccando e sabotando ogni attività, chiuse ogni possibilità di concreta influenza italiana sui territori occupati.

 

All’inizio del’43 gli italiani erano in rotta e la loro occupazione era stata un fallimento: avevano tentato di sopperire con le armi alla debolezza della loro penetrazione, data la mancanza di mezzi e di piani specifici di sfruttamento economico da contrapporre a quelli organici ed efficienti dei tedeschi.

 

In compenso, la resistenza incalzava in un crescendo di furore antitaliano nel quale si segnalavano addirittura i francescani croati, spogliati dei loro numerosi beni immobili sul litorale dalmata.

 

A fine gennaio ’43 il gen. Alexander Lohr – comandante tedesco nei Balcani – assunse il controllo dell’intera penisola, nonostante la presenza di una trentina di divisioni italiane, inefficienti ed incapaci.

 

Nell’aprile gli inglesi decisero di puntare sui comunisti jugoslavi per scalzare gli italiani.

 

In maggio il ritiro italiano da gran parte dei territori croati scatenò l’ennesima furia sanguinaria croata, partigiana e tedesca. Chi aveva collaborato o creduto negli italiani (per es. i cetnici che passarono poi coi partigiani) era lasciato al suo terribile destino.

 

Nonostante alcune feroci rappresaglie delle camicie nere e dei battaglioni Mussolini, gli italiani erano finiti.

 

 

 

II

 

 

 

Tutto ciò ebbe decisive ripercussioni anche all’interno dell'Italia nord-orientale, infatti fin dall'inverno 1941 - 42 era iniziata in quelle zone la penetrazione degli attivisti comunisti slavi da oltre confine.

 

Il P.C.J., infatti, pur di unificare sotto di sè il Movimento Popolare di Liberazione, aveva accettato tutti i programmi annessionistici dei nazionalisti slavi, terroristi compresi. Era una deviazione piuttosto seria dalla dottrina internazionalista, ma in questo modo il P.C.J. riuscì ad agganciarsi a numerose forze altrimenti ostili, come ad esempio il clero cattolico slavo, da sempre accesamente anti-italiano.

 

Fu così che quando, nella tarda primavera del '43, si attivarono i contatti col P.C.I. in nome del comune fronte antifascista, venne posta sul tavolo anche la questione dell'annessione: nonostante su questo punto gli slavi fossero chiari e determinati, tale questione sembrò prematura, ed invece esplose ben presto in tutta la sua gravità.

 

 

 

Dall’occupazione slava a quella tedesca

 

 

 

Il 25.7.43 la caduta di Mussolini generò sbandamento ed incertezza in tutt' Italia, ma ancor più nelle sue regioni nord-orientali nelle quali la società era meno omogenea e più esposta. La situazione, naturalmente, peggiorò dopo l'improvvida proclamazione dell'armistizio l' 8 settembre.

 

Il caos regnò sovrano: era sparita ogni autorità ed ogni punto di riferimento. In un crescente clima di anarchia i distretti militari vennero abbandonati, le truppe si sfaldarono fino a dissolversi mentre gli italiani restavano in balia di se stessi perché anche le autorità civili in brevissimo tempo si dissolsero.

 

Non così gli slavi: da due anni era iniziata oltre confine la loro lotta partigiana e, insieme, la loro opera di infiltrazione nei territori italiani. Dopo l' 8 settembre poté così emergere la loro rete organizzativa pazientemente tessuta ma, soprattutto, da Slovenia e Croazia poterono entrare in Italia completamente indisturbate intere armate partigiane slave con idee e progetti di annessione chiari e definiti.

 

L' occasione non fu persa: anche se la pratica del saccheggio e della ricerca di bottino era generalizzata, furono gli slavi ad impadronirsi della maggior parte delle armi e del materiale bellico abbandonati dagli italiani.

 

Questo punto va tenuto presente: nonostante gli slavi a proposito di questi frangenti abbiano sempre parlato di 'insurrezione', in verità l'occupazione slava di territori italiani non fu dovuta tanto a elementi locali (spesso addirittura costretti ad armarsi) quanto invece a queste bande provenienti da oltre confine.

 

I fascisti cercarono di riprendersi e di combattere, ma ciò compromise ancor di più gli italiani, senza altro già identificati col fascismo e ritenuti collettivamente responsabili di tutte le colpe del regime e dell’occupazione.

 

Per parte loro, gli antifascisti italiani - il cui nerbo era costituito dai comunisti - si unirono agli slavi e, data la esperienza accumulata da questi ultimi, ne accettarono il comando.

 

Fin dal momento della caduta di Mussolini erano inoltre entrate in alcune delle maggiori città della zona (ad es. Pola) anche truppe tedesche, naturalmente indisturbate, ma gli slavi non intrapresero nessuna azione contro di esse: il loro obiettivo erano infatti gli italiani. Per quanto gli ustascia croati ed i partigiani slavi si combattessero fra loro, avevano comunque le stesse mire su Istria e Venezia Giulia: impadronirsene ed annettersele. Ecco che già il 9.9.43 il governo fascista della Croazia - col pieno appoggio tedesco - aveva decretato l' annessione di Fiume, Istria e Dalmazia ed aveva dichiarato guerra all' Italia; che quattro giorni dopo a Pisino, divenuto loro centro operativo, i comunisti croati - col pieno appoggio dei delegati del P.C.I. (fra cui Togliatti) - avevano proclamato l' annessione alla "nuova Jugoslavia" di tutti quei territori ed anche di Zara e di tutte le isole del Quarnero; e che tre giorni dopo il Fronte di liberazione sloveno aveva decretato lo spostamento dei confini ad ovest dell' Isonzo, sempre col consenso del P.C.I..

 

Il vero dramma era che non si trattava solo di annessione di territori, bensì anche di quella che negli anni Novanta sarebbe stata chiamata "pulizia etnica", cioè dell’ espulsione o dello sterminio degli appartenenti alla nazionalità indesiderata. Non fu così un caso che, per es., già il 25 settembre il "Comando provvisorio di liberazione per l' Istria" non ne proclamasse solo il distacco dall' Italia, ma anche l' espulsione di tutti gli italiani colà arrivati dopo il 1918.

 

Immediate furono le violenze anti-italiane.

 

Col regime del 'potere popolare', comunista e partigiano, iniziò il terrore: arresti in massa, processi farsa, sentenze capitali, massacri indiscriminati, repressione generalizzata e cumuli di cadaveri di innocenti sepolti in fosse comuni, in miniere di bauxite e, soprattutto, fatti precipitare nelle foibe (dove venivano gettate anche persone vive spesso legate a cadaveri).

 

In pochissimi giorni fu perpetrata una strage impensabile, imprevista, un fatto davvero nuovo che all' iniziale sfogo improvvisato vide sostituirsi la pianificazione organizzata.

 

Le vittime furono tutte italiane.

 

Come se non bastasse, gli slavi non erano gli unici a volersi annettere quelle sfortunate regioni.

 

Immediatamente dopo la proclamazione italiana dell' armistizio, il 10 settembre a Berlino si decise, come variante del piano 'Alarico', la costituzione della 'Zona di operazioni del Litorale Adriatico' sotto il comando di Rainer: anche se - come già detto - i tedeschi avevano occupato ormai Pola, Fiume, Trieste ed alcuni centri minori, i loro collegamenti verso i Balcani erano ancora insicuri. A Berlino si decise dunque che Venezia Giulia ed Istria andavano occupate, inserite nel sistema difensivo tedesco e, in un secondo tempo, definitivamente annesse al Reich.

 

Il 1.10.43 Rainer informò ufficialmente la popolazione che in quelle zone l' Italia non esisteva più e diede il via all' operazione 'Wolkenbruch' (nubifragio), perfettamente eseguita che, con rastrellamenti efficacissimi spazzò via e ricacciò oltre confine le armate partigiane slave.

 

In Istria cessava un incubo.

 

La terribile ed indiscriminata ondata di violenza anti-italiana, nonostante avesse imperversato sulle regioni giuliane per pochissime settimane, aveva avuto dimensioni impressionanti e la riesumazione (non sempre possibile) di tanti corpi straziati e brutalmente e frettolosamente occultati diede la misura del dramma.

 

Nelle regioni giuliane tornò momentaneamente la calma, ma Rainer - oltre ad operare per sopperire alle necessità belliche - mise subito in atto anche la sua strategia perchè la futura annessione di Venezia Giulia ed Istria potesse avvenire indisturbata. Ecco allora che dai tedeschi l' elemento slavo venne sempre apertamente favorito rispetto a quello italiano: essendo quest' ultimo maggioritario, era giocoforza infatti che i tedeschi rafforzassero il primo nel tentativo di meglio mettere le due etnie in contrapposizione per approfittare poi di ciò. In quest' ottica, oltre che per meglio garantirsi l' alleanza col regime razzista e fascista di A. Pavelic, alla Croazia vennero ridati i territori annessi dall' Italia il 18.5.41 (Concanera, Castrua, Buccari, Sussak e l' isola di Veglia).

 

Dati questi presupposti, l' alleanza coi fascisti non poteva essere che precaria.

 

I fascisti della R.S.I. furono sempre ostacolati e guardati con diffidenza dai tedeschi che, giustamente, vedevano in essi dei sinceri difensori dell' italianità delle regioni giuliane: non ci si può certo stupire dei rapporti sempre peggiori fra fascisti e tedeschi, delle frizioni costanti, degli ostacoli posti alla formazione ed allo sviluppo delle milizie, autonome e volontarie, per la difesa della popolazione italiana (dopo la grande operazione di rastrellamento i tedeschi istituirono presidi solo nei punti strategici), del continuo boicottaggio della costituzione e dell' insediamento delle forze della R.S.I., dell' allontanamento delle unità più combattive (come la X Mas alla fine del '44 (!); alcuni dei suoi reparti però rimasero, combattendo fino all' ultimo a Pola).

 

Un altro chiaro esempio di frizione fra funzionari della R.S.I. e gli alleati tedeschi si ebbe a proposito del comportamento tenuto nei confronti di Spalato e Zara e dei loro abitanti. Queste città, lontane sulla costa dall' Istria ma veneziano-italiane da sempre, occupate dai tedeschi subito dopo l' armistizio, furono da questi consegnate agli alleati ustascia di A. Pavelic: si proponeva ancora l' assurdo di tre popoli e regimi ufficialmente alleati ma che in verità si ostacolavano in tutti i modi dato che i loro obiettivi confliggevano completamente. I tedeschi favorirono sempre gli ustascia croati che resero la vita (quando la lasciarono) sempre più impossibile agli italiani; per parte loro, i partigiani croati diedero false informazioni ai loro alleati inglesi perchè bombardassero ripetutamente Zara - senza che ciò obbedisse ad una necessità di ordine militare - fino a raderla al suolo. I tedeschi ordinarono poi lo sfollamento di Zara stessa - salvo tentare di ostacolare l' "afflusso non desiderato di profughi" a Trieste, per il quale si adoperavano invece i funzionari della R.S.I. - che il 31.10.44 verrà occupata definitivamente dai partigiani croati, i quali distruggeranno ed incendieranno ciò che di italiano era ancora rimasto.

 

A Spalato agli italiani erano state addirittura ritirate le tessere annonarie.

 

Intanto nelle regioni giulie i partigiani si venivano riorganizzando e le violenze, le vendette, le rappresaglie, gli scontri, i sabotaggi e gli attentati andavano intensificandosi.

 

Che situazione assurda! Fascisti ed antifascisti italiani si combattevano fra loro, alleati a forze che volevano annettersi la loro terra: nessun italiano allora sembrò rendersi conto di ciò mentre la guerra continuava.

 

 

 

Lotta partigiana e progetti di annessione

 

 

 

I partigiani italiani - soprattutto comunisti - all' inizio della loro azione non avevano potuto far altro che unirsi agli slavi ed accettarne la supremazia, ma con l'organizzarsi sempre più e sempre meglio del C.L.N. e con la sensazione di un prossimo crollo del nazifascismo cominciarono ad evidenziarsi anche le difficoltà del rapporto con gli slavi. Il fronte antifascista era una evidente necessità, ma il problema del futuro assetto delle regioni giuliane dopo la liberazione si veniva delineando sempre più chiaramente.

 

Gli italiani in Istria ed in Venezia Giulia non riuscirono mai a darsi quell'organizzazione che ebbero invece nel resto dell' Italia occupata, mentre gli slavi mostravano efficienza ed esperienza e, soprattutto dalla primavera del '44, incrementarono notevolmente il loro numero nelle regioni italiane. I combattimenti e le azioni erano improntati a grande crudeltà delle quali erano spesso vittime italiani, colpevoli solo della loro etnia.

 

La linea ufficiale dell’Internazionale comunista parlava in verità di autodeterminazione dei popoli e, conseguentemente, ogni decisione sul futuro assetto delle terre redente avrebbe dovuto essere rimandata alla libera scelta degli indigeni a guerra conclusa: il C.L.N.A.I. si atteneva senz' altro a questa linea, ma nelle terre giuliane i comunisti italiani, nerbo delle forze partigiane italiane, erano divisi fra, appunto, gli ‘internazionalisti’ e quelli che possiamo definire filoslavi, i quali ultimi accettavano il comando di sloveni e croati e sorvolavano sulla loro aggressività nazionalista accontentandosi dell' ideologia socialista da questi disinvoltamente sbandierata.

 

Mentre le stesse fila partigiane italiane non trovavano una comune linea sulla questione dell' italianità di Istria e di Venezia Giulia, duri colpi si abbattevano sui nostri sfortunati connazionali: i primi del luglio ‘44 i tedeschi - in seguito al passaggio del capitano Casini (comandante dei carabinieri di Pola e successo al maggiore Luise, già arrestato dai tedeschi) e di 70 cc. con gli slavi - disarmarono i carabinieri il cui corpo era stato faticosamente ricostituito e ne internarono in Germania la maggioranza. Mentre i fascisti plaudivano ed accusavano i cc. di tradimento, il capitano Casini (e la moglie!) venivano condannati a morte dagli slavi stessi poco dopo.

 

Per quanto apparentemente assurdi, fatti come questo avevano una loro sinistra logica.

 

Verso la fine dell' agosto ‘44 i tedeschi riuscirono ad arrestare gran parte della dirigenza partigiana italiana 'internazionalista': con ogni probabilità ciò avvenne su delazione slava (e non sarebbe stata l' unica volta) e, comunque, questo fatto segnò la 'svolta' (fu chiamata proprio così). Da quel momento la federazione giuliana passò sotto il controllo slavo, la unica vera forza politica organizzata le cui capacità operativa ed esperienza di lotta erano innegabili.

 

Così, quando il C.L.N. giuliano rifiutò le pretese slave, i comunisti italiani ne uscirono (!) e, anche se il C.L.N.A.I. sosteneva la linea ufficiale dell' autodeterminazione, la federazione giuliana - ormai con gli slavi - non fu richiamata all' ordine. Il fatto era che nelle regioni nordorientali i C.L.N. erano deboli e, anche per la presenza e pressione degli slavi, non riuscirono mai a dar vita a quelle strutture che invece erano sorte nel resto dell' Italia occupata. Gli slavi approfittarono sempre di ciò: in nome dell' unità della lotta svilupparono le loro organizzazioni in territorio italiano, rispettavano gli accordi solo quando avevano interesse a farlo, cercarono sempre di mettere tutti di fronte al fatto compiuto, smembrarono le unità italiane aggregandone i membri alle loro brigate, oppure inviandoli in Slovenia e Croazia, impedendo così loro di combattere per la liberazione della loro terra. Altre volte nei battaglioni italiani venivano fatti confluire sempre più elementi slavi fino a stravolgerne la natura.

 

Gli italiani non si resero mai veramente conto di quanto si andava svolgendo sotto i loro occhi: evidentemente lo sforzo bellico ne assorbiva l' attenzione, senza dimenticare la linearità, la decisione e la chiarezza di obiettivi degli slavi che, oltre alla sopracitata delazione ai tedeschi di italiani scomodi (quanti arresti sospetti!), non esitavano ad arrestare ed a fucilare quei combattenti italiani che non ne riconoscevano la supremazia.

 

Le cose andavano bene per gli slavi anche dal punto di vista della situazione internazionale: nell' agosto ‘44 re Pietro II ed il suo governo, esuli a Londra, riconobbero agli organismi resistenziali di Tito la rappresentanza reale del Paese, accettandone tutte le rivendicazioni territoriali nei confronti di Austria, Ungheria ed Italia; nonostante le ripetute richieste del governo italiano per una occupazione alleata delle regioni giulie, il 15 dello stesso mese lo sbarco, già voluto da Churchill in Istria, avvenne invece, per volontà americana, a Tolone ed a Marsiglia (l’operazione ‘Anvil’, poi ‘Dragoon’). Le truppe di Tito non avevano così la minaccia di presenze alleate concorrenti nelle regioni giuliane.

 

 

 

La conclusione della guerra ma non del dramma

 

 

 

Nonostante nell' autunno '44 grosse operazioni di rastrellamento avessero bloccato le attività partigiane e nell' inverno si intensificassero gli interventi contro di esse, ai nazifascisti era ormai chiaro che la guerra era persa: dopo che il 18.10.44 i partigiani di Tito e le armate sovietiche avevano liberato Belgrado, con un notevole aumento di mezzi i primi si andavano preparando all' assalto finale ed i tedeschi (ed i fascisti) non potevano che organizzare la propria difesa.

 

Le azioni dei partigiani si rianimarono presto e la loro azione dilagava dappertutto: ben attiva era l’ ‘alleanza’ col P.C.I.: nel febbraio ‘45 Togliatti, vicepresidente del Consiglio, avvertì il capo del Governo, Ivanhoe Bonomi, che, se il C.L.N. avesse ordinato ai partigiani di marciare in Venezia Giulia per fermare gli slavi, i partigiani comunisti si sarebbero schierati con la Jugoslavia.

 

Finalmente, il 17.4.45 Tito diede il via all’operazione ‘Trieste’ per l' occupazione delle regioni giulie che, precedendo addirittura la liberazione di territorio nazionale slavo (Zagabria e Lubiana, per es.), intendeva porre tutti dinanzi al fatto compiuto.

 

La vittoria slava era inevitabile e seguì grossomodo sempre lo stesso copione nelle varie zone dell' Istria e della Venezia Giulia.

 

Fu così che a Trieste i reparti cittadini che, organizzati dal C.L.N. giuliano, avevano cominciato ad operare allo scoperto alla fine del mese, quando il primo maggio si incontrarono con i primi reparti slavi entrati in città, gliela consegnarono. Togliatti aveva invitato la popolazione giuliana ad accogliere le truppe titine come liberatrici (secondo lui l’Italia, che durante il ventennio fascista aveva oppresso la popolazione slava, a guerra persa non poteva pretendere di non aver prezzi da pagare) ma queste, solo due ore dopo la loro entrata disarmarono senza alcun problema il C.V.L. e subito dei tremila combattenti un migliaio finì nelle foibe. Ben diversamente si comportarono i tedeschi che, asserragliati, attesero le truppe neozelandesi del generale Freyberg per arrendersi (solo il giorno seguente!).

 

A cavallo dei mesi di aprile e di maggio le truppe di Tito occuparono Gorizia, Monfalcone, Trieste, Fiume e tutta l' Istria.

 

Mentre i ministri del P.C.I. dichiaravano Trieste italiana - ma nulla dicevano sul restante territorio - la federazione italiana triestina era invece con gli slavi ed in genere i comunisti italiani condivisero senza riserve l' ubriacatura nazionalista slava. Eppure il regime di occupazione fu terribile ovunque: deportazioni, massacri, sparizioni, infoibamenti, terrore sulla popolazione di nazionalità italiana si svilupparono con maggiore intensità proprio a guerra conclusa e vinta sotto gli occhi impassibili di Freyberg.

 

Di questa vasta ed indiscriminata opera di repressione - che vide la partecipazione attiva dei comunisti italiani - ancor oggi non si sa molto: i comunisti slavi hanno sempre negato il numero delle vittime loro imputato e quelli italiani cercarono di ridurre a centinaia le decine di migliaia - perchè di queste dimensioni fu il vero numero delle vittime.

 

Quando gli Alleati a loro volta arrivavano, non finiva l’incubo solo per i tedeschi che non erano riusciti a ritirarsi e si erano asserragliati in attesa di arrendersi ad un nemico non così terribile come gli slavi, ma anche e soprattutto per la popolazione civile italiana.

 

Fu così che, accordatesi all’inizio di giugno col Comando alleato, le truppe di Tito dovettero sgombrare Tarvisio, Caporetto, Gorizia, Monfalcone, Trieste e Pola il 12 di quello stesso mese.

 

 

 

 

Per la seconda volta in due anni, furono truppe straniere di occupazione a far cessare l’incubo della repressione etnica slava sugli italiani.

La gravissima repressione subiva infatti almeno una interruzione: a Trieste i "40 giorni" avevano lasciato ferite profonde; a Pola, dove si era combattuto duramente e dove la X Mas aveva resistito fino all' ultimo, i cittadini uscirono da un regime di terrore ed iniziò la loro dura, eroica, ma perdente e largamente sconosciuta lotta per restare italiana; Fiume, dove fin dall' 8 settembre era nato un vasto ed articolato movimento contro il nazifascismo e dove prima di ritirarsi i tedeschi avevano distrutto tutti gli impianti ancora in piedi, era comunque passata sotto controllo del C.L.N. locale quando il 4 maggio arrivarono gli slavi. La popolazione non li accolse per le strade e si chiuse eloquentemente in casa: per mesi dovette subire spoliazioni sistematiche e violenze di tutti i generi, spesso contro esponenti della lotta al nazifascismo, e visse sofferenze inenarrabili fino alla possibilità di opzione sancita dai trattati di pace. A decine di migliaia i fiumani abbandonarono tutto ed entrarono in Italia esuli in patria. Nella loro città erano stati fatte arrivare ondate di croati la cui lingua era stata proclamata quella ufficiale.

Fra Tito e gli Alleati le trattative negli ultimi due anni erano state abbastanza complicate e confuse ma alla fine, il 9 giugno, venne tracciato il confine che vedeva la perdita per l' Italia di tutti i territori rivendicati dagli slavi ad eccezione del "Territorio libero di Trieste" diviso in due zone: A (circostante Trieste ed amministrata dagli anglo-americani fino al '54) e B (Istria nord-occidentale temporaneamente, si fa per dire, amministrata dagli slavi). In verità questo "Territorio libero" fu solo una definizione senza contenuto tanto che Italia e Jugoslavia non si accordarono nemmeno sul primo punto, la scelta di un governatore, così il confine fra le due zone era di fatto un confine fra stati.

Pola diventava una ènclave italiana e gli Alleati avrebbero dovuto mantenere un certo controllo sui porti della costa occidentale dell' Istria, ma pochi giorni dopo rinunciarono spontaneamente a tutto ciò, lasciando definitivamente, e senza contropartite, le città italiane nelle mani slave.

 

L’esodo

 

La snazionalizzazione e le persecuzioni potevano procedere ormai indisturbate nell' indifferenza delle forze politiche italiane e mentre nel resto d' Italia si festeggiava la liberazione e la fine della guerra. Forse la parte peggiore del dramma si ebbe proprio a guerra finita, quando le genti italiane erano ormai sole e senza voce nelle mani del regime comunista slavo.

E fu l' esodo.

Gli italiani se ne andarono in massa: città grandi e piccole si svuotarono completamente, o quasi, dei loro abitanti che, andandosene, perdevano tutto.

L' esodo era già cominciato nel periodo bellico, continuò nel dopoguerra e fu un fiume in piena dopo la firma del trattato di pace (10.2.47) che col "diritto di opzione" lo garantiva con modalità e procedure.

Prendiamo, per es., il caso di Pola: il 15.9.47, concluso l' esodo, sbarrata la città, questa fu consegnata ai sopraggiunti partigiani slavi (un centinaio) dagli ultimi militari alleati che immediatamente si imbarcarono assieme agli ultimi esuli italiani. Tutto avvenne nel silenzio, nello squallore d' un abbandono senza partecipazione e vita, dopo due anni di sforzi e lotte della popolazione che si trovò sola e dimenticata da una madrepatria della quale pure si sentiva parte e nella quale si riconosceva completamente.

Oltre 300.000 italiani giunsero in patria in condizioni di assoluta indigenza avendo potuto portare con sè solo effetti personali e mobilia: non ottennero nessun indennizzo per tutto quello che perdevano, i frutti del lavoro di generazioni.

Lo strazio del loro destino fu acuito dal loro accoglimento in patria: i comunisti facilmente li insultarono rinfacciando loro di essere "fascisti"; spesso trovarono indifferenza, fastidio, incomprensione per il sacrificio cui erano stati costretti o che non avevano potuto fare a meno di compiere.

Furono ospitati per anni in campi profughi, in ex campi di prigionia, in edifici abbandonati e riaperti per loro, in condizioni anche profondamente differenziate, ma che a volte erano assolutamente inaccettabili (spesso mancava il riscaldamento, i vetri alle finestre, la luce elettrica, ecc.).L’ignoranza da parte dell' opinione pubblica per le loro vicissitudini, e magari la domanda in buona fede ‘ma perchè non siete rimasti a casa vostra?’, ancor oggi li ferisce profondamente.

La storia, intanto, andava avanti senza curarsi di loro.

 

 

Il 28 giugno 1948 Tito romperà con Stalin ed il P.C.I. muterà subito politica: Togliatti rivendicherà all’Italia la Venezia Giulia ed il nuovo segretario della federazione triestina, Vittorio Vidali, inizierà una politica filosovietica ed antititoista.

 

Tutto ciò avvalora l’ipotesi che il vertice del P.C.I. non fosse stato libero di esprimersi finchè Tito aveva l’appoggio dell’ U.R.S.S., ma era comunque troppo tardi: ormai l’esodo era avvenuto e poi Tito venne subito appoggiato dalle potenze occidentali che dimenticarono facilmente la loro “Dichiarazione tripartita” del 28.4.48 secondo cui l’ intero “Territorio libero di Trieste” andava riconsegnato all’ Italia per ovvii motivi di appartenenza etnica, storica e culturale.

 

 

 

I giochi ormai erano fatti da tempo quando l’ 8 ottobre 1953 Gran Bretagna ed U.S.A. annunciarono il ritiro delle loro truppe dalla zona A e la loro non opposizione all’ annessione della zona B da parte della Jugoslavia.

 

Il “Memorandum d’ intesa” del 5 ottobre 1954 fra Gran Bretagna, U.S.A., Italia e Jugoslavia fissò i confini e le regole per il trasferimento di chi lo volesse da una zona all’ altra. Così, mentre la ex zona A vedeva, fra l’ entusiasmo popolare, l’ arrivo di militari e funzionari italiani, nella ex zona B, fissato il termine ultimo del 5 gennaio 1956, si assistette invece all’ ultima ondata migratoria di profughi italiani, quasi 37mila disperati nel solito silenzio ufficiale.

 

L’ ultimo tassello fu posto il 10 novembre 1975: il trattato di Osimo sanzionò definitivamente che il confine fra le due ex zone diveniva confine fra Stati.

 

In Italia si fece appena caso alla cosa.

 

Ancor oggi questi italiani, queste povere genti, non riescono a capacitarsi di quali colpe si siano mai macchiati per meritarsi un destino simile e a cosa siano dovuti il silenzio e l’ indifferenza che noi connazionali abbiamo continuato a riservar loro fino a ieri.

                                                                                                                    

      

(  fig 1 -  le principali foibe)

 

 

Conclusione

 

 

 

Che dire in definitiva di una pagina così nera e così vergognosa della nostra storia? E’ facile cadere nella tentazione di concludere che ad un nazionalismo (italiano) se ne contrappose un altro (slavo); che ad una pulizia etnica (solo – e malamente – tentata) ne successe un’altra, ben più efficiente e riuscita; che, insomma, chi la fa l’aspetti e che l’Italia non ha diritto di lamentarsi se è stata pagata con la sua stessa moneta.

 

Questa, del resto, è la tesi di chi ha voluto minimizzare la gravità di quanto successe nell’Italia nord-orientale, ma è una tesi inaccettabile per almeno due motivi.

 

Il primo è che ragionando in questo modo si giustifica e si accetta il fatto che a pagare per le colpe dell’occupazione italiana dei Balcani sono state popolazioni innocenti, estranee ai fatti o, addirittura, che li avevano combattuti. Si fa proprio, insomma, il principio della responsabilità collettiva secondo il quale se italiani si macchiarono le mani di sangue, è giusto che paghino altri, purchè e perché italiani anch’essi.

 

In secondo luogo, i progetti annessionistici slavi non nacquero come reazione all’occupazione italiana, ma colsero l’occasione che essa offriva per realizzarsi in tutta la loro efficace spietatezza.

 

Il ’guai ai vinti!’ di Brenno è violenza, non giustizia.

 

 

 

 

 

L’ulteriore vergogna

 

 

 

Nel febbraio 1945, quando la guerra stava per concludersi e gli slavi erano ormai sicuri del loro successo e della riuscita dei loro piani annessionistici, il governo di Tito presentava all’apposita Commissione alleata (U.N.W.C.C.) una lunga denuncia dei crimini di guerra commessi dagli italiani durante il periodo dell’occupazione: la articolata relazione era ricca di nomi, fatti e responsabili di cui si chiedeva la consegna perché venissero processati.

 

Gli italiani furono veloci nel rispondere e già nell’aprile lo Stato Maggiore dell’Esercito inviava una contromemoria, seguita da una nota nell’agosto e da materiale fotografico nel settembre.

 

In estrema sintesi, si negava tutto.

 

I fatti addebitati venivano o contestati o minimizzati e ricondotti al fatto che in guerra ed in regime di occupazione le pratiche e le misure in questione non erano, per quanto spiacevoli, che prassi comune ed accettata; si insisteva molto ricordando che, comunque, le truppe italiane si erano sempre attenute ai relativi regolamenti, nazionali ed internazionali; si metteva in luce la particolare situazione – ingarbugliatissima – nella quale le nostre truppe avevano dovuto operare; la efferatezza del nemico; le numerose lotte interne fra gli slavi stessi; il comportamento sollecito ed amichevole (sic) del soldato italiano verso la popolazione civile; che tedeschi e croati avevano fatto ben di peggio ai disgraziati sottoposti alla loro occupazione e/o aggressione; che gli italiani avevano solo reagito alla barbara ferocia dei partigiani (che non venivano riconosciuti come belligeranti e che quindi erano da considerare banditi o ribelli non garantiti dalle convenzioni di guerra); che finchè la popolazione non aveva iniziato a reagire all’occupazione tutto era andato per il meglio e la situazione era rimasta tranquilla ed ispirata ad un senso di collaborazione e di amicizia.

 

Leggere queste pagine suscita un senso di incredulità: mai, nemmeno per un attimo, da parte italiana si riesce a prendere atto che noi eravamo gli occupanti e che la terribile catena di violenze ricordata e sottolineata nella relazione difensiva ci poneva dunque inequivocabilmente dalla parte del torto; che era ridicolo – o peggio – parlare del fatto che ‘si era in guerra’ come se questa fosse una eventualità oggettivamente neutra e non invece precisamente una nostra scelta di cui portavamo intera la responsabilità; che, insomma, gli slavi erano in casa loro e combattevano per la loro indipendenza contro di noi che li avevamo aggrediti senza alcuna giustificazione.

 

Comunque, fra il settembre 1946 e il gennaio 1947 – mentre la pulizia etnica a nostro danno procedeva verso le sue battute finali - una Commissione d’inchiesta italiana riprese in mano l’intera questione dei crimini di guerra italiani e lavorò per convincere gli Alleati della nostra serietà e della nostra sincera volontà di perseguire e punire i responsabili senza doverli consegnare agli slavi.

 

Fu così che un certo numero di alti o altissimi ufficiali (ma anche militari di più basso grado) e funzionari responsabili venne riconosciuto meritevole di processo e rinviato a giudizio: le accuse erano terribili e riguardavano tutta una serie di efferate violenze non frutto di furia improvvisa, ma pianificate in documenti ufficiali, organizzate e facenti parte di un preciso piano di dominio.

 

Ma nessun processo venne mai celebrato nè nemmeno avviato finchè nel 1951 l’intera questione venne definitivamente archiviata: la pratica del rinvio, della controdenuncia e del giustificazionismo avevano raggiunto pienamente il loro scopo.

 

La conclusione di tutto ciò è amarissima e deprimente: di tutte le violenze perpetrate – da una parte e dall’altra - ai danni di civili inermi ed innocenti – di una parte e dell’altra – nessuno dei responsabili ha pagato o è stato almeno chiamato a rendere conto.

 

I carnefici - vincitori e vinti - sono stati accumunati nell’impunità più totale - e l’Italia rigenerata, libera e democratica, non stava nemmeno a guardare perché volgeva il capo da tutt’altra parte.

 

 

 

Il caso italiano nel contesto europeo

 

 

 

Arrivati a questo punto potrebbe sembrare che il quadro sia ormai chiaro e definito, mentre invece per averne una percezione davvero completa è necessario collocare gli eventi del nostro Paese nel più vasto panorama europeo dell’immediato secondo dopoguerra. E si scoprirà allora che, purtroppo, la pulizia etnica da noi subita non è stata certo l’unica né la più grave e nemmeno la più dimenticata (almeno fino a ieri).

 

Il Novecento ha infatti visto ben più massicci genocidi, violenze di massa e pulizie etniche a partire da quelli perpetrati dai turchi a danno degli armeni e dall’espulsione dei greci dall’Asia minore durante la prima guerra mondiale; ma per restare agli anni in cui si svolse il dramma degli italiani delle terre giulie e, tralasciando la Shoa (nella quale non furono impegnati certamente solo i tedeschi), bisogna ricordare che

 

- dai 12 ai 15 milioni di tedeschi vennero espulsi (sia durante l’avanzata dell’Armata Rossa che nell’immediato dopoguerra) da Polonia, Cecoslovacchia (circa due milioni di Sudeti), Ungheria, Jugoslavia, Romania, in condizioni durissime in un mare di vendette, ritorsioni e violenze di ogni genere che costarono da 1 a 2 milioni di morti;

 

- la Germania perse circa un quarto del territorio che possedeva nel 1937 ed ebbe almeno mezzo milione di deportati in U.R.S.S.;

 

- la Polonia venne letteralmente spostata ad ovest con conseguenti espulsioni di massa di milioni di persone (quanti? Cinque?) avvenute in condizioni proibitive per raggiungere l’omogeneità etnica: fu così che

 

- polacchi ed ucraini si espulsero a vicenda – a milioni - dai territori dei loro nuovi Stati in un clima di grande odio e violenza;

 

- gli ungheresi furono espulsi con brutalità da Cecoslovacchia, Jugoslavia e Romania;

 

- tante altre pulizie etniche ed espulsioni “minori” ordinarono poi l’Europa centro-orientale postbellica.

 

 

 

Ora, ciò che colpisce in tutta questa follia è il consenso di massa che sempre accompagnò queste misure, a testimonianza di problemi e rancori atavici che la guerra sicuramente aveva scatenato ed amplificato ma non fatto nascere.

 

 

 

Da ultimo resta poi da chiedersi se tutto ciò fu frutto di improvvisazione e reazione alle violenze subite o, invece, l’attuazione di un piano preordinato e studiato a freddo: qui si propende sicuramente per questa seconda ipotesi e dietro la ricomposizione dei confini e delle popolazioni dell’Europa centro-orientale appare la lucida e geometrica struttura mentale di Stalin.

 

E’ vero che il progetto di risistemazione dell’Europa centro-orientale su basi meno confuse di quelle uscite da Versailles era stato pensato da Francia ed Inghilterra che avevano sognato così di poterla eterodirigere a guerra terminata; è vero che nel 1945 l’espulsione dei Suddeti dalla Cecoslovacchia era stata voluta dal governo democratico di Benes (spalleggiato dall’U.R.S.S.) con un regolamento di conti vecchio di secoli; ma a Teheran (fine novembre 1943) era stato Stalin ad aver avuto mano libera non solo nei nuovi confini dell’U.R.S.S., ma, appunto, in tutta l’Europa centrorientale.

 

E come procedeva Stalin in questi casi non era un mistero né una novità, basta considerare l’opera compiuta dall’U.R.S.S. in Asia centrale quando proprio lui era stato Commissario alle nazionalità: erano state costruite cinque nazioni - kazaka, kirghisa, tagika, turkmena ed uzbeka – là dove non era fino ad allora esistito nessun confine fisso né, tanto meno, la nozione stessa di identità nazionale.

 

E dal 1991 quei confini sono addirittura diventati confini fra stati indipendenti (!!).

 

Insomma, nelle pulizie etniche, nelle espulsioni, negli spostamenti di massa e nell’esplosione di tanti conflitti fra maggioranze e minoranze non si colgono soltanto rancori e risentimenti antichi e recenti, ma anche – e soprattutto – l’attuazione di un progetto semplice: avere in Europa stati con popolazioni omogenee e compatte con una chiara identità e fisionomia perchè ciò sembrava avrebbe garantito pace e stabilità ed anche perché una tale semplificazione era molto più funzionale ad un progetto di controllo e dominio.

 

 

 

(su tutto ciò si rimanda comunque al mio “La ricomposizione etnica dell’Europa”)

 

 

 

Forse noi italiani siamo stati un’appendice secondaria e marginale ad un piano ben più vasto?

 

In una prospettiva più ampia la nostra tragedia si ridimensiona o, almeno, perde parte della sua drammaticità?

 

C’è qualcuno che riesce a rispondere?

 

 

 

Sottomarina primavera 2004 (ultima modifica)

 

 

 

 

Bibliografia

 

Luigi Salvatorelli: “Storia del ‘900” – Oscar Mondadori, Verona 1971.

Storia d’Italia nel periodo fascista” – Oscar Mondadori, Verona 1970.

 

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Davide Rodogno: “Il nuovo ordine mediterraneo” – Bollati Boringhieri, Torino 2003.

 

Marta Verginella: “Il confine degli altri” – Donzelli, Pomezia 2008.

 

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Articoli, saggi e testimonianze di vari giornali e riviste e scaricati da Internet.